sabato 17 febbraio 2018

Mister Ghezzi



A Frosinone, dove si era trasferito negli ultimi anni, lo chiamavano ancora signor Ghezzi. I suoi successi, “Voglio stare con te”, “Tu nella mia vita”, “Noi due per sempre”, “Un corpo un’anima”, non erano semplici promesse da marines...
Nel Gennaio ’75, l’Italia che non voleva il divorzio si prende la sua rivincita con il ritornello “e non ci lasceremo mai…”, anche se a cantarlo è la prima coppia mista dello spettacolo italiano, Wess e Dori Ghezzi.

(intervista con Wess pubblicata su “Musica Leggera” - Luglio/Agosto 2009)

Ripartiamo dall’America. Dove ci troviamo esattamente?
North Caroline, mi hanno appena regalato una piccola tromba. Andare a scuola per me significava entrare nella classe di musica, tutto il resto non mi interessava. Così, mi sono sempre occupato della banda, un lavoro molto complesso perché in America ogni scuola ha la sua squadra di baseball e quando la squadra si muove, si sposta anche tutta la banda musicale. 130 elementi che, insieme alle majorette, hanno il compito di occupare lo spazio tra il primo e il secondo tempo, invadendo il campo con uno spettacolo vero e proprio. Io all’epoca suonavo già tutti i fiati, sapevo leggere le parti e fu facile per me diventare il “drum major” dell’orchestra.

Il direttore?
Sì, nelle bande si chiama così perché si presume che le bande siano principalmente basate sulle percussioni. Nella mia banda c’erano 12 batterie e 2 grancasse, oltre naturalmente a tutti gli altri strumenti.

Quanti anni avevi?
Ho seguito la banda per un paio d’anni circa, fino a 16 anni e mezzo. Sai, in America a 15 anni si è grandi. Per fortuna ho studiato anche un po’ il francese e ho fatto bene, anche se allora non potevo di certo immaginare che sarei finito in Francia.

Una fermata intermedia prima del grande sbarco nel Lazio, come mai?

Porto di Norfolk, Virginia, Stati Uniti. Facevo il militare alla Naval Station Norfolk, una delle più grandi basi navali del mondo. E’ lì che ho conosciuto Rocky Roberts e i nostri Airedales. Arruolati come marines siamo diventati abili musicisti: la sera scendevamo dall’Independence, la nostra enorme nave, e andavamo a suonare sul lungomare di Norfolk. Poi è successo che l’ufficiale del nostro reparto, Doug Fowlkes, è diventato il nostro manager. Fowlkes aveva sposato una donna di Cannes, così, scaduto il nostro tempo sulla nave, decidemmo di scendere tutti insieme sulla costa francese. Siamo rimasti un mese e mezzo, prima di trasferirci stabilmente a Parigi.

Quanto tempo siete rimasti in Francia?

Due anni. La moglie di Fowlkes è stata velocissima a far conoscere Rocky al pubblico francese e noi con lui.

Perché Airedales? Cosa vuol dire?

Diavoli dell’aria. In fondo ci eravamo conosciuti su una portaerei.

E poi capitan Fowlkes ha virato dritto verso l’Italia.

Rocky è approdato alla RCA di Roma e ha avuto successo anche qui. Fowlkes faceva spalancare tutte le porte, è stato anche il manager di Barry White. Quando Fowlkes si è ammalato, Barry l’ha fatto ricoverare e l’ha assistito fino alla morte. Peccato che quando è morto Barry non c’era nessuno accanto a lui.

Eri molto amico di Barry White?

Con Fowlkes l’abbiamo portato una settimana alla Bussola, poi abbiamo fatto Sanremo insieme, alla fine eravamo come due fratelli. Viaggiava sempre con sua moglie Glodean, con la bambina e con sua madre. Barry era una persona pura. Di solito gli artisti hanno la puzza sotto il naso e sono viziati, lui invece non beveva e non fumava, forse mangiava un po’ troppo, questo sì. Abbiamo anche giocato a carte e Barry poteva maneggiare rotoli di 100 dollari come fossero 1000 lire. Questa cosa mi ha molto impressionato perché diventare famosi in America vuol dire soldi.

In Francia avrai conosciuto tutti i grandi artisti di quegli anni.

Ho lavorato con tutti. Nelle tournée noi facevamo il primo tempo. Una volta ho suonato il basso pure per Aznavour. Finito il nostro set, toccava a lui, ma il suo bassista non arrivava. Così mi sono messo ad accompagnarlo, nascosto dalla tenda del sipario, con le parti in mano. L’Olympia l’abbiamo fatta con i Rolling Stones. In quel caso c’era il problema di riempire l’enorme sala con il suono. Allora non si usavano impianti, un gruppo non veniva quasi mai amplificato, solo il cantante aveva il microfono, al massimo c’era un altro microfono per i fiati. Quello che usciva fuori, usciva fuori. Invece un teatro come quello andava microfonato tutto. Allora che ho fatto: ho preso due amplificatori per il basso, due Ampeg americani, e li ho messi uno a destra e uno a sinistra, ottenendo una profondità e un pieno di suono migliore degli Stones che di ampli ne avevano 12, ma intanto si chiedevano come avessi fatto. Loro usavano il famoso Vox, l’effetto strillante resta strillante, non dai maggiore potenza: amplifichi la mentalità, diventa solo più rumoroso. Jimi Hendrix voleva 16 Marshall solo per lui, per la sua chitarra. Infatti un giorno a Milano abbiamo cominciato tardi perché ne aveva contati quindici e se non arrivava anche l’ultimo amplificatore Hendrix non suonava.

Quando hai cominciato a cantare?

Durante le serate, quando Rocky era stanco, io facevo due o tre canzoni per farlo riposare.

E ad un certo punto sei uscito dal gruppo per intraprendere una carriera solista.

Ci siamo separati, ma è stata una cosa decisa a tavolino. Il nostro manager si accorse di avere due artisti ben distinti e che era un peccato accontentarsi del gruppo così come aveva funzionato fino a quel momento.

E Rocky come la prese?

Forse gli ha dato fastidio, non ha più voluto continuare con il gruppo, diceva che ne aveva trovato uno migliore, ma io so che non era così. Il gruppo di Rocky eravamo noi, ecco perché poi io sono andato avanti con gli Airedales.

Però siete sempre rimasti amici, non è così?

Fino alla fine. Io ho una casa a Fregene, lui era in affitto e stava sempre da me.
Quando Rocky è morto, ha portato via con sé una parte della mia vita. Noi siamo sempre stati insieme dall’inizio, seguivo tutte le sue cose, ho scritto tutto per lui, gli arrangiamenti li facevo come voleva lui, sono diventato il suo capogruppo perché ero quello di cui si fidava di più. Il suo successo dipendeva da come preparavo la band, se sbagliavo io sbagliava anche lui. Abbiamo condiviso tantissime cose, basti pensare a “Stasera mi butto”. Sul retro del 45 giri c’era un mio pezzo, “Just because of you”, quindi quando siamo stati premiati per 1 milione e mezzo di copie, ho preso anch’io lo stesso premio.

E dalla RCA perché sei passato alla Durium?

Qui subentra un altro grande amore per me, Little Tony. Io frequentavo Tony molto spesso per via della sua gelosia. Era molto geloso della moglie. Mi spiego. In quel periodo a Roma suonavo al Club 84 e Tony veniva giù a locale per spiare la sua signora, convinto di trovarla lì con qualcun altro. Lo vedevo appostato inutilmente nel suo angoletto e alla fine siamo diventati amici. Mi veniva a prendere tutti i giorni per portarmi in sala. Ho lavorato al missaggio di “Cuore matto” , ho tirato fuori quel basso e l’ho fatto suonare a modo mio. Un giorno Tony mi procura un incontro-audizione con Elisabel Mintanjan, la moglie del presidente della Durium, Krikor Mintanjan, di origini armene. Il contratto è praticamente già pronto, lascio la RCA e porto via anche Rocky, nonostante loro mi avessero sentito cantare nell’album di Rocky e mi avevano già proposto un progetto solista. Lucio Dalla doveva scrivere dei pezzi per me e di quelle canzoni erano già partiti i provini. Devono avermi odiato per questo.

Il tuo primo Lp Durium è “The sound of soul” del 1967. Cosa conteneva?

Il mio repertorio, qualche cover, ma soprattutto i miei brani. Dove vedi Fowlkes-Johnson-King, era un accordo che avevamo preso per dare un contributo al nostro manager. Jessie King era l’organista e poi c’ero io che scrivevo quasi tutto da solo. Il primo pezzo dell’album è “Chapel of dreams” canzone del 1958 portata al successo dai Dubs, un gruppo vocale doo wop, che poi sarebbe diventata, con il testo italiano di Giorgio Calabrese, “I miei giorni felici”. Fu il produttore Giampiero Scussel a suggerirmi di cantarla in italiano, devo sicuramente a lui questa intuizione, anche se io non ho mai amato questa canzone.

E perché?

La odiavo e ancora oggi non la sopporto, ma dopo tanti anni se c’è
un pezzo con cui sono riconosciuto è proprio “I miei giorni felici”. Questo dimostra il potere della discografia, finché fa il suo lavoro: se tu dai una cosa al pubblico, in un primo momento può essere snobbata, ma se questa cosa viene promossa a tappeto alla fine cede sempre il pubblico. La cosa strana è proprio questa, che il pubblico alla fine accetta qualsiasi cosa.

Tornando alle canzoni che ti gratificano maggiormente, preferisci forse “Un corpo un’anima”?

Quella sì che è diventata veramente una cosa mondiale, accettata in tutte le lingue e in tutte le nazioni, al punto che Umberto Tozzi ancora mi bacia quando mi vede. E’ stato in assoluto il suo primo hit, anche se solo come autore. Mi ricordo all’epoca aveva fatto un provino del brano e me lo portò insieme ad altri pezzi. Afferrai subito quella, bocciando le altre.

A proposito di autori, alcuni tuoi pezzi sono firmati da un certo Lubiak, cioè Felice Piccarreda...

Il produttore che mi ha fatto conoscere Dori. In realtà l’avevo già incontrata al Cantagiro del ’69, e già allora stavo meditando un cambiamento – noi americani siamo fatti così, a un certo punto abbiamo bisogno di fare qualcosa di diverso e spesso lo facciamo in coppia. Se ci fai caso, tutti gli artisti americani prima o poi hanno fatto un duetto nella loro carriera. Insomma, fu Piccarreda a chiamare Dori in studio, a Milano. La prima cosa che abbiamo registrato insieme, prima di ufficializzare la coppia, è “Voglio stare con te”, che fu inserita nel mio 33 giri “Vehicle”, quello con tutti gli Airedales sulle moto Kawasaki. E da lì, è partita la nostra scalata finita purtroppo quando è stata rapita.

Dori è stata la prima cantante a cui hai pensato, o avevi fatto anche altri provini?

In verità ero diventato molto amico di una ragazza che faceva la corista di Rita Pavone, si chiamava Rita Monico, aveva una voce pazzesca, voleva fare delle cose da solista e avevo anche scritto delle canzoni per lei. Però aveva un problema alla gamba, non camminava bene e questo le leggi impietose del palco e delle televisione non lo avrebbero ammesso. Io non ho mai voluto parlare di questa ragazza perché poverina ha perso un’occasione d’oro. Chissà come sta oggi…

Prima dicevi che gli artisti hanno la puzza sotto il naso, a chi ti riferisci?

Gli artisti italiani sono tremendi, perché tra colleghi non si salutano. Celentano ed io ci siamo incrociati tante volte e non ci siamo mai scambiati una parola, lo stesso con sua moglie. Loro stanno sulle loro ed io rimango sulle mie, che posso fare? Molti cantanti hanno mantenuto una certa distanza con me. Noi americani non siamo così, artisticamente parlando. Non c’è niente da fare, il modo di pensare a questo lavoro è molto diverso e un collega americano non rifiuta mai una stretta di mano.


Qual è il tuo rapporto con l’America?
Non buono, per questo insistevo ad andare avanti qui e con me ho portato anche i miei due fratelli, Orlando Johnson, il batterista che ora suona nei programmi della Rai e Marvin, che però adesso vive in America, è tornato a casa. Anche quando ho cercato di distribuire i dischi della Durium non è stato facile. Nel 1976 ho fondato la mai etichetta Wesley International. E’ durata 4 anni in Italia e 4 in Nord America.

E per un periodo hai vissuto in Canada.

Mi piaceva di più, facevo molti concerti ed avevo la possibilità di stare vicino agli Stati Uniti, ma in un paese con la mentalità europea. Avevo una grande comunità italiana che mi appoggiava e da lì era più facile manovrare gli affari con New York, anche se nella jungla newyorkese è impossibile sopravvivere. Già allora sparavano 900 produzioni al giorno.

Anche Dori ti raggiunse in Canada?

Non subito, anzi la prima volta mi ha creato anche molti problemi perché una buona metà del tour americano l’ho fatto senza di lei. Il produttore voleva linciare l’impresario, serviva una ragazza somigliante… Pensavamo che nessuno se ne sarebbe accorto. Al Madison Square Garden non c’era Dori, ma una bionda che avevo conosciuto in Canada, totalmente sconosciuta. Era un’italiana del sud, forse pugliese. Lo so non sono belli certi trucchetti, penso pure che il pubblico se ne sia accorto, poi per fortuna Dori mi ha raggiunto a Toronto e abbiamo chiuso il tour insieme. E’ stato un grande successo, ma lei era molto diffidente nei confronti dei produttori italo-canadesi.

Quali sono i numeri del vostro successo in duo?

Impossibile stabilirlo, se pensi che “Un corpo e un’anima” continua a vendere, soprattutto in compilation. In cifre posso dirti che subito dopo Canzonissima arrivò il riconoscimento per 800.000 copie vendute. E’ stato sicuramente il nostro maggiore successo anche negli altri mercati, con diversi milioni di copie solo in Sud America. Quando abbiamo fatto l’Eurofestival con “Era”, la vendita dell’album in Europa aveva raggiunto quota 6 milioni.

Quando la stampa ti chiedeva del duo, tu rispondevi alla solita
domanda così: “Non formiamo una coppia fissa, siamo due solisti che la casa discografica ha messo insieme per vendere più dischi”. A cosa attribuisci il successo, alla tua svolta melodica o alla novità della coppia?

Quello che facevo io è quello che poi ha fatto uno come Zucchero, ma a metà degli anni ’70, il soul e l’r&b non andavano più per la maggiore. Io vedevo la cosa a modo mio, pensavo di fare il colpo grosso, ma i discografici e i media sono riusciti a fare qualcosa di più incisivo, conquistare il cuore delle casalinghe italiane. All’inizio è stata la formula mista che ha più colpito e che ha fatto anche discutere. Ma il successo è questo.

Ricordi qualche episodio in particolare?

Alle volte la cosa era un po’ comica. Anche se avevo semplificato apposta il mio nome –Wess da Wesley Johnson –, la gente trovava più facile chiamarmi signor Ghezzi… anche perché molti erano convinti che Dori fosse mia moglie.

Forse anche voi, per ragioni pubblicitarie, avete giocato con quest’ambiguità.

E’ partito semplicemente come un lavoro. Ma poi, sai, stando insieme è arrivata la tenerezza. Non è durato molto perché io avevo dei problemi, ero sposato, avevo dei figli, non potevo approfondire troppo, anche se mia moglie già sapeva… ma non ho ne ho mai parlato a nessuno: dovevamo sempre nasconderci, per stare da soli scappavamo in montagna, a Bormio. Poi Dori ha cominciato a soffrire, soprattutto quando a Sanremo mi raggiunse mia moglie. Forse dovevo stare solo con lei e non l’ho fatto.

E così è il tuo primo matrimonio finì…

Tanto sarebbe finito lo stesso… Con la vita che facevo era impossibile stare a casa, avevo tutti addosso. Poi quando Dori ha conosciuto Fabrizio, ha cambiato rotta.

Tu l’ hai conosciuto, De Andrè?
Certo, la prima volta ci siamo incontrati per caso in un teatro di Milano. Oddio, non so quanto fosse casuale quest’incontro o magari coordinato da qualcuno, forse per gelosia. So soltanto che io ero uscito con una parente di Dori e alla fine eravamo seduti vicino, tutti e quattro sulla stessa fila di posti numerati… una strana coincidenza, non ti pare? Era pieno di giornalisti che ci scattavano foto ed è stato proprio in quella occasione che è esplosa la novità che lei stava con Fabrizio.

Qual è l’ultima cosa che hai fatto con Dori?
Un album nel ’79, si chiamava “In due”. Poi abbiamo registrato un pezzo che dovevamo presentare al Festival Yamaha in Giappone nel 1980, ma il rapimento in Sardegna mise fine tutto.

L’ultima volta che l’hai incontrata?

Qualche anno fa sono andato a Milano a fare una cosa in teatro organizzata da lei. Era all’inizio della guerra del Golfo. Ora ci sentiamo al telefono ogni tanto, ma non ho potuto più abbracciarla.

Wess, Elisabel Mintanjan (moglie del boss della Durium), Dori Ghezzi



Timisoara Pinto

lunedì 12 febbraio 2018

Fabrizio De Andrè e la Corte dei miracoli

E’ da quando ho visto al Cinema “Principe libero” che mi ronza in testa una parola che forse De André non avrebbe mai usato: “imprinting”. Sì, perché il mio battesimo del fuoco con De André dev’essere avvenuto in un “periodo sensibile”, un incontro, una scoperta che ha lasciato un’impronta forte e precisa e, soprattutto, me ne ha fatta venire in mente un’altra.

Avrò avuto sei, sette anni, ero sul divano davanti alla tv a casa dei nonni, il raduno dei nipoti, la domenica a pranzo. Monocanale per riflesso condizionato in era pretelecomando. Un via vai di adulti chiassosi, tra la cucina e il soggiorno. Fatto sta che, anche in tempi non sospetti, su quello schermo poteva accadere di tutto.  Un film di cappa e spada all’improvviso si trasforma in una raffinata saga a metà tra il cinema d’autore anni ’60 e le cime tempestose delle copertine dei romanzi Harmony.

Un'attrazione sensualissima quella tra la bionda Angelica, marchesa degli angeli, e il suo Joffrey de Peyrac, quello con la cicatrice per sembrare sfigurato ma che, invece, non era brutto per niente.
A seguire, un altro amore, quello tra l'altrettanto bionda Marianna, la perla di Labuan e Sandokan di Kabir Bedi (l’unico e inimitabile), riproponeva sguardi, colori, intrecci e la stessa singolar tenzone.

Alla fine tutti fuori a giocare e al massimo a citofonare, dove macchine non ne passavano e una catasta di macerie sembrava lì apposta per farci arrampicare. Sarà stato per i capelli lunghi e ribelli e perché facevo scherma, ma finivo sempre con l’interpretare sempre un po' Angelica, un po' Sandokan, comunque a battagliare.

Bastava cambiare fascia, perché mia madre mi metteva sempre la fascia, non il cerchietto. Ne avevo una rossa e una celeste. Con la prima ero Sandokan, con l’altra la marchesa degli Angeli.

Non mi ricordo il mio primo incontro con De André, ma guardando “Principe libero”, la schermaglia
tra due personaggi belli e ribelli (quindi doppiamente belli), anche in questo caso la bionda e il tenebroso con cicatrice da qualche parte, mi ha fatto ripensare ai miei eroi dell’infanzia.

Dori Ghezzi e Fabrizio come Marianna e Sandokan, come Angelica e Joffrey, con la loro Corte dei miracoli fatta di pirati, esclusi, emarginati sociali o, per chiudere con le parole dello stesso De Andrè: “quel mondo disperato e affascinante dei miserabili, dei diseredati, di coloro che non hanno avuto fortuna, delle vittime insomma. Coloro, anche, che hanno peccato, che la giustizia dell'uomo tanto spesso condanna senza pensare che spesso è proprio la miseria, la sfortuna, la solitudine a spingerli sulla china del male. Sicché la conclusione è che soltanto la pietà, l'amore può salvare l'umanità''. Ecco, De Andrè e i cantautori sono stati la mia educazione musicale, ma anche e soprattutto, politica e sentimentale.



Timisoara Pinto