mercoledì 31 gennaio 2018

Ma come "chi fu?"

Antonio Infantino, i denti cariati... E la patria?



E allora chi fu? Il suo tormentone, “La gatta mammona”, è il mantra che dovrebbe sciamare nella nostra testa in queste ore. Un briccone divino, secondo la felice intuizione di Luigi Cinque nel suo lavoro da regista dedicato ad Antonio Infantino. Si chiama “Fabulous trickster”, il film è praticamente finito, e prende spunto dal saggio antropologico psicanalitico di Paul Radin, Károly Kerényi, Carl Gustav Jung. Una definizione a cui Antonio con grande ironia non si è mai sottratto, salvo poi ribadire ad ogni occasione: “ma perché nessuno dice mai che io ho ricevuto il massimo riconoscimento europeo in ambito culturale da parte dell'Accademia Reale Belga di Letteratura, Scienze e Belle Arti? E' come vinere il Premio Nobel dello spettacolo!”. Ma questa storia dell'eremita egocentrico che sfuggiva talora per attorcigliarsi in una dose di autolesionistica cialtroneria ci faceva sorridere un po' tutti e lui ci era dentro con tutto il suo copricapo. Forse perché Antonio faceva scivolare le cose nell'imbuto della sua filosofia.

Antonio Infantino era un musico incantatore, quello che insieme a Enzo Del Re ha tracciato il passaggio dal cantore di musica popolare al cantautore. Che ha messo testardamente elementi di musica popolare nella sua personale proposta artistica, fatta di avanguardia, poesia beat e attitudine punk.

Era un architetto e, soprattutto un filosofo, folgorato dalla vicinanza della scuola orfico-pitagorica che aveva in Metaponto, nella terra dov'è cresciuto, in Basilicata, uno dei suoi centri propulsori. “La filosofia è alla base di tutto – mi diceva –. Devo molto alla professoressa di Liceo, Amina Capoluongo Ferrari, tua nonna, perché mi ha insegnato a perseguire i gradi di libertà e la libertà di coscienza. Mi sono interessato di tarantismo e di qualsiasi forma d'arte nella misura in cui sia il tarantismo che ogni forma d'arte sono lo strumento per mantenere e conservare la libertà, non solo nella nostra coscienza ma nel sociale”.  Capite perché c'era un legame fortissimo tra di noi?

Ma allora chi fu? Un nomade, uno sradicato, costretto dai fatti, a ingaggiare una forma di guerriglia culturale, per snobismo di ritorno, a rivendicare le radici: “con il mio 110 e lode in architettura, i premi internazionali, ho comunque dovuto fare uno sforzo superiore ad uno di Firenze, perché lui partiva dalla città dell’arte per eccellenza. Ma a Firenze, senza Pitagora, il rinascimento fiorentino non lo facevano mica!”
L'Università per i figli dei baroni non lo aveva previsto e nel suo continuo uscire da un'orbita di se stesso per entrare in un'altra, Infantino si trasferisce in Brasile. Anche lì riesce a fare allo stesso tempo il pittore, l'architetto e il musicista.

“Non mi interessa la tradizione in sé, ma la forza di quella cultura, condividere l’oro dell’umanità. Questo implica uno sforzo enorme per acquisirla, digerirla, ma le culture di cui gli altri sono portatori devono avere pari dignità. “Non sei di Tricarico perché sei nato a Sabaudia, quindi a Tricarico non ero di Tricarico perché nato a Sabaudia, a Potenza non ero di Potenza perché ero cresciuto a Tricarico, a Firenze non ero di Firenze perché venivo da Potenza, in Brasile non ero brasiliano perché arrivavo dall’Italia”. Le conseguenze sociali di questa emarginazione hanno dato un'impronta fortissima alla sua vita.

In Brasile Infantino realizza, tra le altre cose, progetti di urbanizzazione (Ubatumirim), la Chiesa di San Juan per la Braslar - Jacarei a San Paolo e l'album con Fafà De Belèm, “La Tarantola va in Brasile”. Con la sua taran-samba al Tenco del 1977 fa ballare il pubblico del Teatro Ariston di Sanremo come forse non è mai più accaduto.

“Il dialogo e la comunicazione con gli altri avvenivano proprio attraverso la musica. Non era un interesse teorico, era che ti mettevi a suonare e vedevi le combinazioni. Ascoltavi un ritmo e rispondevi con il tuo, era un incrocio, una poliritmia. Come il freejazz rispetto al jazz, la differenza è di mentalità. Adoro la cultura degli altri perché è degli altri. È come se io mi interessassi al corpo degli altri senza tener conto del mio. Del mio in relazione a quello degli altri. Allora con la musica non è la stessa cosa? Suonavamo insieme agli altri, come quando si sta insieme, non è che ad un certo punto io mi faccio uguale all’altro. E questo è fondamentale per capire perché in Italia si fanno, invece, sempre le fotocopie”.

Ma allora chi fu? Senza ripercorrere l'intera carriera, basta dire che ad Infantino, in un periodo di grande fervore
controculturale, capita un'occasione dopo l'altra che ne fa anche un genuino precursore. Nel 1966 debutta con un libro di poesie, "I denti cariati e la patria", con la prefazione di Fernanda Pivano: poesie-canzoni con cui Giangiacomo Feltrinelli avrebbe dovuto lanciare una collana sulla beat generation italiana. "Gli occhi strabuzzati del surrealismo, ma il surrealismo della realtà, delle differenze di status. Nelle mie poesie c'era l'alienazione consumistica. Era un modo di essere tarantato non folkloricamente".

Il suo primo album, nel 1968, “Ho la criniera da leone... perciò attenzione”, inaugura l’etichetta “Gruppo 99”, una piccola scuderia musicale all’interno della Ricordi dedicata alla nuova canzone sociale e politica. Con la sigla SMRL 6062, l'album fa parte del primo lotto di dischi "stereo" prodotti in Italia. Arriva con Stereoequipe (SMRL 6060) dell’Equipe 84 e immediatamente prima del debutto a 33 giri di Lucio Battisti (SMRL 6063). I numeri di catalogo attestano la cronologia degli avvenimenti.

Poi il suo produttore, il grande Nanni Ricordi, gli dice “ti interessano le canzoni ‘cuore-amore’ o invece c’è qualcosa in te che fa parte della carne e del sangue della nostra cultura?”. Tra andare a Sanremo o seguire Dario Fo, Antonio non ha dubbi: partecipa a “Ci ragiono e canto” e il posto al Festival si libera per il “successore”. Si toglie anche il foulard dai colori psichedelici per “prestarlo” a Battisti nell'inizio della sua avventura.

Antonio espone le sue opere tra gli artisti della Galleria Numero di Fiamma Vigo. Collabora con i musicisti del Living Theatre, pionieri del free jazz e con artisti performativi, gestuali come Vittorio Gelmetti, Sylvano Bussotti, Pietro Grossi, Giuseppe Chiari e Alvin Curran del gruppo Fluxus. Porta i suoi tarantolati al Folkstudio di Roma, incide i suoi dischi per l'etichetta di Giancarlo Cesaroni e lì debutta con i suoi spettacoli, tra cui“Il ballo di San Vito”.

Ma allora chi fu? Per saperne di più c'è un libro di Walter De Stradis, “Nella testa di Antonio Infantino”, una recente intervista su blogfoolk.it, il film in uscita, un nuovo disco registrato ma ancora inedito. Tante cose in ballo e lui spicca il salto, il paradosso trascendente nel canone in fuga circolare del ritmo ipnotico di cui è maestro, come San Giuseppe da Copertino.

“Nella terra della miseria nera fotografata da Cartier-Bresson negli anni 50, mi piaceva e mi incantava vedere la gente ballare… senza pudore e conformismi, man mano sempre più eccitati come fisiognomiche capre saltanti, gatti, cani, conigli, galline fuggenti, colombe, aquile nel cielo, porci, vacche, tori, cavalli, api ronzanti al ronzio della zampogna… ruotando fino a cadere stressati ma felici, attori di una grande pantomima al ritmo della divina proporzione”.

Negli occhi portava impressa l'immagine di un eroe, il sindaco poeta contadino di Tricarico, Rocco Scotellaro: “con i suoi capelli rossi, la sua dolcezza e la sua autorevolezza, era molto appariscente. Me lo ricordo bene quando camminava davanti al portone di casa mia con Danilo Dolci e Carlo Levi, e noi bambini ci incantavamo, addomesticati e ricomposti come quando passa il santo”.

Ma allora chi fu? E perché Sabaudia? Il 6 aprile 1944, suo padre, già decorato al valor militare, era di servizio sulla costa, a Terracina. “Sono nato sotto le bombe che arrivavano dal mare e sotto i tetti occupati dai tedeschi che sparavano con le mitragliatrici antiaeree. Mio padre dice che fu un ufficiale tedesco a fare da levatrice, secondo mia madre, invece, un tale di San Lorenzo rifugiato nel campo di Sabaudia. Un enigma che non credo risolverò mai. Ecco perché mi è connaturale un così forte senso percussivo nella musica e sono visceralmente scortato da grandi esplosioni ritmiche e da questo benedetto destino che mi porta a girovagare senza correre mai grandi pericoli”.

Una vita vorticosa di quelle che generano una forza centrifuga. Non era facile per nessuno stargli accanto. Avrebbe solo voluto suonare di più, non aspettare mesi e anni per un pagamento. Stanco, arrabbiato, orgoglioso, di quelli che arrivano a sublimare la scelta di vivere senza mai curarsi, senza più fiducia nelle istituzioni e senza illusioni.

Ma allora chi fu? Molti non lo hanno capito. Lo sanno i musicisti di Tricarico che gli sono stati sempre accanto, gli artisti che lo hanno coinvolto nei loro festival. Ce lo vedete Antonio Infantino a seguire un percorso fatto di bandi, protocolli, rendicontazioni? Non si è trovato un modo per sollevarlo dall'ansia del vivere quotidiano attraverso un incarico di prestigio, una docenza accademica. Non poteva essere un meraviglioso testimonial orgogliosamente acclamato della Regione Basilicata? Proprio ora che la nostra regione è così esposta agli sguardi del mondo della cultura?

Parlare con lui era un'esperienza psicanalitica con una certa matematica convinzione che tanto tutto tornava sempre al suo posto, tranne questa volta, che se n'è andato lasciando a noi la quadratura del cerchio.


Timisoara Pinto



Con Enzo Del Re in "Ci ragiono e canto"

Con Enzo Del Re in "Scatola n.3"

L'ultima locandina



Tricarico (MT)

martedì 16 gennaio 2018

Il cielo d'Irlanda e la salsa di mirtillo




Ho scoperto la cranberry sauce quando facevo l’Università.  Dividevo l’appartamento con Audrey, una ragazza irlandese che ha studiato e lavorato a Roma con l’Erasmus. Certo, al cinema tutti intingono il tacchino nella salsa di mirtilli. L’avevo visto in “Quel che resta del giorno” con Anthony Hopkins o in qualche serie tv americana nella scena dell’immancabile pranzo del ringraziamento. Ma il mirtillo era sapere che ogni tanto avrei ascoltato una telefonata tra una madre e una figlia nella lingua scura di Dublino.
Audrey si presentò come ci saremmo vestiti noi nella fase dark di almeno dieci anni prima, quando si ascoltavano i Cure, per capirci: anfibi, capelli nero corvino, top con bretelline, gonne lunghe, matita intorno agli occhi. Tutto rigorosamente nero. Nero con gli occhi celesti su una pelle bianchissima.

Al sole di Roma, quelle volte che Audrey usciva senza lo stucco di protezione sul viso, rientrava rossa come un peperone e le lentiggini che cercava di nascondere con uno strato di cerone bianco che manco la notte di Halloween, tradivano la vera identità, più vicina al candore bucolico di Holly Hobbie che al look lugubre e mortifero di Marylin Manson.

Il vero diavolo era la carne che non mangiava, ma a dire il vero non sono mai riuscita a capire come facesse ad andare avanti a pacchetti di patatine e bicchieri di vino rosso e coca cola, la sua miscela preferita. Infatti, mica li beveva separatamente. Insieme diceva che erano più buoni (anche perché il vinello era quello lanciato sulle tavole di mezzo mondo in confezione tetra pack).

Audrey aveva sempre una bottiglia del suo bibitone accanto al letto. Anche quella mattina quando, diretta verso il bagno, fui quasi accecata da un cono di luce divina nel corridoio. La mia coinquilina era andata a dormire lasciando la porta blindata spalancata, che spaventoso ossimoro. Meno male che nell’androne c’era Egisto, il portiere, un meraviglioso mestiere che anche a Roma purtroppo sta scomparendo.
Erano gli anni dei pub irlandesi e lei lavorava in uno di questi. Quando andavo a trovarla, riuscivo a dirle due parole solo mentre lavava i bicchieri. I bicchieri al pub si lavavano così: due secondi di immersione in una vaschetta piena di detersivo annacquato e poi capovolti a scolare sulla tovaglietta rettangolare con il logo della Guinness.
Erano gli anni dei piercing sulla lingua e dei Cranberries, ma Audrey era pazza di Eros Ramazzotti. Forse all’epoca, per gli studenti Erasmus, era l’unico approccio per iniziare a masticarla la lingua.

Mi parlava molto della sua famiglia numerosa, di un’Irlanda bigotta dove tutti spacciavano pillole del giorno dopo, ma anticoncezionali neanche a parlarne. Dove ti potevi ubriacare come se non ci fosse un domani e appena uscito dal College ti sposavi per metter su famiglia. Delle “vacanze romane” di Audrey e del cielo d’Irlanda visto da qui, ho imparato le sfumature. E anche quel nero, che ora in giro per il mondo abbracciando gli elefanti, la ragazza con gli occhi azzurri e le sopracciglia sottili non indossa più, non era proprio nero nero. Era il nero scolorito, il nero che perde dopo tanti lavaggi. Noi diremmo che diventa color melanzana, ma invece era proprio salsa di mirtillo.


Timisoara Pinto

giovedì 11 gennaio 2018

Nello spazio live di stereonotte con Enrico Rava e AstroSamantha...




Il 12 gennaio, a partire dall’1.30, Stereonotte trasmetterà il live di un gigante del jazz: Enrico Rava. A 78 anni, il trombettista, band leader e “guru” per diverse generazioni di musicisti, non smette di confrontarsi con i giovani talenti.
Nello spazio musicale notturno di Rai Radio1, Enrico Rava sarà accompagnato, infatti, da Francesco Diodati, vincitore, per quattro anni consecutivi del referendum della rivista JazzIt nella categoria miglior chitarrista.

“Stereonotte è una luce in mezzo a tutto il buio che c’è intorno, come i dischi che hanno illuminato la mia infanzia”: saluta così gli ascoltatori l’ospite di Silvia Boschero nel lungo musictalk trasformato in una lectio magistralis sulla storia del jazz.

Tra i brani che Rava e Diodati eseguiranno dal vivo nello studio live di Stereonotte: “Diva”, “Happy Shame”, “F-Express” e “Space Girl,  scritta per AstroSamantha: “Mi ha emozionato l’idea di questa prima donna italiana nello spazio e mia moglie mi ha suggerito il titolo”.

56 anni di carriera e 50 dall’esperienza del ’68: “Io sono uno di quelli che pensano che la musica non c’entri nulla con la politica, ma nel ’68 anche io sono rimasto coinvolto, anche perché il cosiddetto free jazz veniva visto come la musica della rivoluzione e il jazz ortodosso come la musica della reazione. Le conseguenze furono paradossali: a Umbria Jazz, Count Basie non riuscì ad esibirsi perché c’era un gruppo che si chiamava “Senza tregua” e aveva diffuso i volantini con la frase “Non fate suonare Count Basie perché è un servo della Cia”. Per far suonare Chet Baker, “colpevole” di essere uno sfruttatore dei neri, dovette salire sul palco Elvis Jones che prese il microfono per dire “Ragazzi, questo è uno di noi”.

Enrico Rava annuncia il prossimo progetto discografico con il funambolo dell’elettronica degli ultimi anni, Matthew Herbert, e con Giovanni Guidi al pianoforte: “L’ultima grande innovazione sul linguaggio è stata quella di Ornette Coleman e stiamo parlando del 1959. Vedo nell’elettronica una delle possibili vie di scampo per il jazz”.

Foto, video e contributi extra su www.raiplayradio.it e sulla pagina fb del programma (facebook.com/stereonotte).


A questo LINK un pezzo in anteprima: "Space Girl" scritto per Samantha Cristoforetti