sabato 4 marzo 2017

Sotto il cielo di Roma con Mannarino


Roma a cielo aperto. Parte da qui, dalla sua città, Alessandro Mannarino per tornare dalla musica che lo ha rapito, quella capace di portar via anche la tristezza. Il suo “amor all’incontrario”, con i suoi silenzi e le sue contraddizioni, è il simbolo, il bersaglio e il motivo stesso di questo disco.
“Roma”, canzone d'apertura, è la sua “avvelenata”, feroce come una pasquinata, dedicata a chi sceglie di restare. Per resistere bisogna strillare più forte delle campane “che sonano sempre, sonano lente, sonano a morte”.

Mannarino, in “Apriti cielo” c’è ancora la rabbia del tuo disco d’esordio?
Quella è superata. Già dal secondo album e, soprattutto con “Al monte”, il terzo, ho seguito un percorso più riflessivo e questo nuovo lavoro non lascia spazio al malumore ma alla consapevolezza. La rabbia di oggi viene dalla delusione.

Quale? 
Se cammino per le strade vedo una situazione sconfortante: grida xenofobe, muri che si alzano, mentre il cielo è sempre più scuro.

Da cosa dipende tutto questo?
Dall’ideologia religiosa, dalla teocrazia, questa associazione a delinquere tra Stato e Chiesa che impone in ogni nostro quartiere la presenza di una caserma e di una chiesa, una a controllare il corpo, l’altra la mente. E il responsabile principale di tutto ciò è il Papa Re.

Anche questo Papa?
Certo, il dogma non è mica cambiato ed è quello il male assoluto. Considerare le nostre vite quasi come un pre-purgatorio in cui espiare le colpe. E invece io voglio dire che la carne vale, che il corpo è una cosa bellissima, la vita ha un inizio e una fine, e non c’è religione che possa dividerci.

Come nelle atmosfere sonore del tuo disco…
E’ un escamotage esotico che ho inserito nella mia musica per raccontare un’altra storia, quella del sincretismo religioso dell’Africa e di chi non ha secoli di cattolicesimo alle spalle.

C’è anche la tua passione per la musica brasiliana e un artista in particolare, Chico Buarque. Come l’hai conosciuto?
L’ho incontrato a Rio de Janeiro, a casa sua, o meglio sul suo campo da calcio, dove si allena ancora oggi, a 73 anni, tre volte alla settimana. Mi ha detto: “italiano catenaccio” e mi ha piazzato subito in difesa.

Avete parlato anche di musica?
Gli ho detto che ho imparato tanto dalle sue canzoni e che gli sono grato per tutto quello che ha scritto e fatto. Poi mi ha mostrato la foto di una partita con Bob Marley, su quello stesso campo, tanti anni fa.

Tornando a “Roma”, scrivi “serve la bandiera co le stelle”, a cosa ti riferisci?
Roma è una provincia dell’Impero violentata dagli americani che libera tutti e poi li occupa, ma attraverso Roma, voglio parlare dell’Occidente stesso. Anche sui dollari c’è l’occhio di Dio, questa connivenza Stato-Chiesa è ovunque, in tutti i posti di potere: “hai creduto alla bucía de un mercante forestiero e der magnaccia della Compagnia”.

Quale Compagnia? Dei Gesuiti?
L’ha detto tu, non io.



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