martedì 8 dicembre 2015

Prendiamo le misure per il Natale...

I suoni del Conservatorio e la musica del Pollino: il più giovane costruttore-suonatore di zampogna ha vent'anni e vive a San Paolo Albanese, il più piccolo paese della Basilicata



“O fai l’artista o fai l’artigiano. Oppure vai a zappare la terra. Hai deciso cosa vuoi fare?”. Vincenzo Di Sanzo ha il pollice della mano destra quasi falciato dal tornio. Ha vent’anni, vive nel paese più piccolo della Basilicata ed è il più giovane costruttore di zampogne al mondo.
Trent’anni esatti di differenza con Quirino Valvano, che lo accoglie nel suo laboratorio nel Parco del Pollino e per prima cosa scuote la testa, vuole sapere come farà ora a suonare il pianoforte con quel dito martoriato.

Un incontro tra due musicisti-artigiani autodidatti, uno scambio generazionale, una condivisione di una lunga tradizione che, da una cima all’altra della Lucania, ha una fonte unica di riferimento: zìAntonio Forestiero. Uno zio un po' per tutti, classe 1930, il signor Antonio è un pastore e boscaiolo che vive a mille metri, in una contrada di Lauria. Le misure dettate da ZìAntonio costituiscono da sempre la Bibbia di riferimento del settore.

“La zampogna è una passione che può spezzare le dita” dice Quirino, e così è stato anche per zìAntonio. Si tagliò a metà una falange costruendo il primo strumento, segno che doveva continuare. Con suo fratello Vincenzo, che è addirittura più anziano di lui di undici anni, il maestro tornitore del monte Sirino ha formato la coppia di zampognari più longeva d'Italia.

Se riuscissi a far suonare insieme le zampogne di Vincenzo nato nel 1995 e di Vincenzo nato nel 1919, sarebbe un concerto di Natale unico e forse irripetibile, ma la sera della Vigilia, Di Sanzo ha già un impegno: il parroco di Pisticci Scalo, all'organo della sua Chiesa preferisce il suono più polifonico della zampogna di Vincenzo e della ciaramella di un suo amico che lo accompagnerà.

Intanto, nella bottega di Quirino Valvano a San Costantino Albanese, in Val Sarmento, dove incontro per la prima volta i protagonisti del video che segue, le dita affusolate di Vincenzo prendono appunti. Ha bisogno di avere il riscontro della tradizione, quelle misure custodite in una vecchia agenda di Quirino, che a sua volta le aveva chieste a costruttori nati prima di lui, uno a caso, zìAntonio.
Forse questo è proprio il tipo di “tutorial” che non troverete mai su youtube, ridotto al minimo anche nel mio piccolo montaggio.


Di zampogne Vincenzo Di Sanzo ne ha già costruite molte, ma ha cominciato soltanto un anno e mezzo fa, poco più che maggiorenne. Spenta la telecamera, si riaccende la curiosità per l’uso sapiente delle mani e quella manualità fuori dal comune. Così scopro che Vincenzo ha tagliato, cucito e ricamato il suo abito di scena da solo. Dipinge paesaggi e ritratti con tecniche diverse. L’interesse per la zampogna è soltanto una delle tante sue declinazioni musicali. Vincenzo è un polistrumentista, suona la chitarra e soprattutto il pianoforte.  Può cimentarsi con Mozart, Chopin, Beethoven, Rachmaninov, come un diplomato, ma è soltanto al quinto anno di Conservatorio. La prima volta che sfiora un piano (era una tastiera ricevuta in regalo dopo averla tanto desiderata) è già alle Superiori, a quattordici anni. Dopo soli sei mesi di lezioni private supera l'esame di ammissione al Conservatorio di Potenza.

Dicono che la Basilicata sia una piccola regione, ma provate ad arrivare nella città capoluogo con i mezzi pubblici, partendo dalla Val Sarmento. Vincenzo vive nell'altro comune arbëreshë, situato, come si dice da queste parti,  “facciafronte” a San Costantino. Si chiama San Paolo Albanese e si trova arroccato in alto sul lato opposto del maestoso letto del Fiume Sarmento.
Il pullman lassù passa alle quattro meno venti del mattino e si ferma a Senise . Nel paese del peperone crusco, la coincidenza per Potenza parte alle cinque e venti. Una sola fermata nel tortuoso tragitto a Sant'Arcangelo e la corriera arriva a destinazione intorno alle otto e trenta.

Fortuna che non deve farlo tutti i giorni, così Vincenzo ha il tempo di mettere da parte legno di ulivo, procurarsi dal macellaio quel che resta della capra (la pelle di cui è fatto il sacco, l'otre della zampogna), la cera d'api e quant'altro per costruire i suoi  aerofoni di vari modelli e dimensioni.

Il primo ad accorgersi di Vincenzo è stato l'attore Ulderico Pesce che nel 2013 ha organizzato nel Centro per la creatività “Banxhurna” di San Paolo Albanese, il suo primo concerto di piano solo. C'era una bella adunata, compreso il maestro suonatore Quirino Valvano, seduto nelle prime file, ad applaudire quel giovane talento del pianoforte che ancora non sapeva di amare la zampogna e non immaginava che il suo prossimo strumento lo avrebbe addirittura costruito con le sue preziose mani.


© Riproduzione riservata



Dizionario
(leggi anche "Nel paese dei cupa cupa" di Nicola Scaldaferri e Stefano Vaja, Squilibri editore)

Zampogna
La parola zampogna è un termine che indica gli strumenti aerofoni dotati di un sacco. Il modello presente in Basilicata, soprattutto in Val d’Agri e nell’area del Pollino, è la zampogna a chiave, secondo il cosiddetto modello campano-lucano. Monta quattro ance doppie; presenta due chanter (destro e sinistro) e due bordoni (maggiore e minore) inseriti nel blocco. Il chanter più lungo è quello sinistro, tranne che quando si suona alla mancina, invertendo i due chanter.
Le dimensioni della zampogna sono calcolate in palmi, e vanno dalla più piccola, di 2,5 palmi, fino ai 6 della più grande. L’otre viene ottenuto dalla pelle di capra intera.



giovedì 22 ottobre 2015

Cesare Basile e la favola del lavoro



"Tu prenditi l'amore che vuoi e non chiederlo più" è una lunga marcia contro un'Italia marcia. E' il passo inquieto di Basile, Cesare Basile, che usa la favola di Orazio Strano, il padre dei cantastorie siciliani, per adunare come fa il banditore quell'umanità che va avanti, per dirla alla De Andrè, in direzione ostinata e contraria.

Il “cuntaro” siciliano, con l'incedere folk e blues della band dei suoi “caminanti”, mette in musica i personaggi archetipi dell'infanzia per fronteggiare le contraddizioni di oggi. Cantante con la voce che incanta e autore che sa illustrare il suo canto: “allesti cunti si non voi 'n patruni” dice Basile nella canzone manifesto che apre il disco, un omaggio a coloro che hanno scelto di vivere una vita orgogliosa, personale, unica, raccontando le cose agli altri, “una maniera di sottrarsi a una dinamica produzione-consumo tipica dei nostri giorni, al lavoro come religione, fatto passare come requisito necessario per stare al mondo, per essere rispettati”.

“Araziu Stranu” è come Ciccio Busacca, bracciante e muratore, o come Muddy Waters, raccoglitore nei campi di cotone dei bianchi. Quando Alan Lomax gli chiese perché suonasse la chitarra, il bluesman di Chicago rispose: “perché voglio andar via dalla piantagione, non lavorare più”. “Libertà mi fa schifo se alleva miseria” è forse il verso che condensa al meglio la morale della storia, la chitarra di Basile, il suo rosario, è una fionda: “una persona che lavora viene sequestrata in cambio di un salario che non gli lascia niente, non gli dà il tempo di vivere, di crescere, e nemmeno il tempo di lavorare per se stesso”.

Il cd a tinte forti di Basile convince di nuovo, a distanza di due anni, la giuria delle Targhe Tenco, ma questa volta, dopo una serie di avvenimenti legati alla Siae e ai suoi protagonisti, il cantautore catanese ritirerà il suo premio, a dimostrazione che la coerenza premia anche nella musica e il tempo è un grande autore.

da "Il cantautore" Numero unico del Club Tenco Sanremo 2015

© Riproduzione riservata


sabato 17 ottobre 2015

Cantando tutti in coro con Guido De Maria

Premio Tenco 2015 al Re dei "dopocenisti" e del fumetto in tv



Dopo gli anni goliardico-gucciniani e le bisbocce in compagnia del suo pirata preferito, il momento è solenne: il disegnatore Guido De Maria ritirerà sul palco dell'Ariston a Sanremo, il Premio Tenco 2015 all'operatore culturale.
Il disegnatore e autore Guido De Maria

83 anni, veloce e vispo come i nanetti che ha disegnato per la pubblicità, accenna al telefono “Loacker che bontà” per dirmi che l'azienda del wafer delle Dolomiti è ancora il suo cliente più importante. “I piatti-ti-ti, i piatti-ti-ti...con Nelsen piatti li vuol lavare lui” gli rispondo io in un susseguirsi di citazioni, e Guido mi dice “anche quella è mia”, ma subito aggiunge “I testi, per la precisione. Le musiche erano di quel genialaccio di Franco Godi, il più grande jingolista italiano”.

Francesco Guccini, Giancarlo Roversi, Bonvi
Nell'edizione della rassegna della canzone d'autore dedicata al suo amico di sempre, Francesco Guccini, uno dei premi più importanti è un riconoscimento alle origini stesse della manifestazione e ai “tre matti che hanno contribuito a costruire le fondamenta umane del Club”. Il trio (uno tra i tanti, a dire il vero, che cantando-mangiando-bevendo animavano la rassegna) era composto da De Maria, Guccini e Franco Bonvicini detto Bonvi, il disegnatore scomparso nel '95. Un sodalizio nato quando i bambini andavano a letto dopo Carosello. Insieme crearono Salomone, pirata pacioccone con Guccini autore e sceneggiatore per l'Amarena Fabbri e all'occorrenza anche comparsa. “Lo chiamavo a recitare nei caroselli, per quei famosi trenta secondi che oggi sono diventati la pubblicità. Ma lui sostiene che era solo un modo perché venisse anche Roberta, la sua prima moglie, una ragazza molto bella, alta, appariscente con un viso da primo piano, mentre lui sfilava lontano, sul fondo”. 
L'incontro con Francesco avviene però anni prima. “Mi avevano parlato di un ragazzo che suonava in un locale di Bologna chiamato La grondaia. Una sera tentai di registrare una canzone, ma ad un certo punto cominciai a fargli dei gesti, a dirgli di scandire meglio le parole perché non si capiva niente. Cantava in modo molto chiuso, tutto rivolto verso di sè, ed io dal pubblico a dirgli “più chiaro, non riesco a registrare”. Ad un certo punto, lui smette di cantare, sento gli occhi degli altri avventori che mi guardano con disprezzo e Francesco, allora sì con voce chiarissima: “c'è qualcuno che mi toglie di torno questo rompicoglioni?” Fu naturalmente l'inizio di una grande amicizia.

“Formammo gli Archibusti – continua De Maria - , un gruppo di cabaret in cui Guccini aveva la funzione di fare le canzoncine per collegare i vari quadri, con quella erre malconcia mica poteva parlare, poteva solo cantare. Il cantautore, ecco cosa doveva diventare, e il mio unico scopo era non farlo laureare, ma lui voleva fare il professore. Un giorno mi chiama stupito perché aveva ricevuto la convocazione per l'esame alla Siae, ma non aveva mai inviato la richiesta. Per forza, gli risposi, l'ho mandata io!” Anche De Maria (che per Guccini era come un fratello maggiore di otto anni) aveva abbandonato un futuro da matematico e fisico per darsi alla passione che ora gli vale il Premio Tenco: il fumetto. “Operatore può anche andar bene, è culturale che mi preoccupa. Tra me e la cultura c'è un dissidio che va avanti da mezzo secolo”. 

Gli Archibusti di Francesco e Guido si esibivano al Ginko BiloBar di Bologna nel '65, ma il trambusto durò solo una stagione. “Ci offrirono persino di fare la traversata inaugurale di un nave della marina commerciale, non ricordo se la Michelangelo o la Raffaello. Alla fine ognuno di noi aveva i suoi impegni e ci sciogliemmo, ma l'esperienza degli Archibusti in qualche modo è confluita in alcune canzoni dell'album Opera buffa”. Mentre Francesco diventa Guccini con l'album della consacrazione “Radici”, Guido inventa un adattamento spiritoso di un detective noto come Nick Carter e lo porta in tv. Nasce un format televisivo, Gulp! e poi SuperGulp!, con strisce e nuvolette parlanti  interpretate da eccelsi doppiatori.

 

Figlio del veterinario condotto di Lama Mocogno, paesino ridente del modenese, arroccato a 900 metri sulla strada che porta al monte Cimone, dopo aver prodotto con la sua Vimder Film migliaia di Caroselli, con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia come testimoni di nozze, suonatore di ocarina e cabarettista da crociera mancato, Guido De Maria va a ricordarsi di un vecchio baule in soffitta che conteneva alcune raccolte di gialli che leggeva il suo papà. La Rai, attraverso il responsabile dei progetti speciali Giancarlo Governi (sua l'idea di portare i fumetti in tv), chiese a lui, a Bruno Bozzetto e Paul Campani di scegliere tra Joe Petrosino e Nick Carter. “Campani fece Petrosino, Bozzetto il signor Rossi, ma tutti e due non riuscirono a liberarsi del loro specifico di grandi animatori, quindi venne fuori un prodotto ibrido tra cartone, fumetto e balloon. Io fui rispettoso del fumetto, facendo apparire le nuvolette sulle teste dei personaggi in sincrono con l'audio. Una stupidaggine, ma costrinse i telespettatori a leggere le battute”.
Se oggi il suo detective sarebbe sempre newyorkese non lo sa, ma di certo non si chiamerebbe Joe Petrosino: “perché avevo il timore di confrontarmi con un personaggio realmente esistito. Il caso volle che ritrovai questa collezione di gialli di mio padre, libriccini di 32 pagine, usciti per i tipi della Nerbini. Oltre a Nick Carter, che peraltro come personaggio letterario nasce nel 1886 dalla penna dell'americano John Russell Coriell, c'erano le storie di Buffallo Bill, Fantomas, Arsenio Lupin. All'interno del fumetto c'erano dei personaggi che si potevano proporre in maniera facile e divertente. Dissi allora a Bonvi: devi farlo alla maniera di Dick Tracy. Quel fumetto sembrava un film stampato, il racconto era di una perfezione cinematografica, con i campi lunghi, i dettagli, le angolazioni, i controcampi, insomma bastava riprendere vignetta per vignetta e ne veniva fuori un film. Nel giro di una settimana, Bonvi mi diede settantasei disegni con cui realizzai il prototipo di Nick Carter, il numero zero”.


In mezzo, però, c'era sempre il Tenco e da tempi non sospetti, quando la nascita del Dopotenco anticipò addirittura quella della rassegna vera e propria. Intorno a quelle cene che poi diventarono un rito irrinunciabile del dopo-serata, nacquero i discorsi, le strofe, i sogni e tra uno gnocco fritto e un prosit, i culturali propositi. “Al Tenco ero uno dei dopocenisti più assidui. Nei primi anni ci ritrovavamo al Pipistrello, una specie di cave parigina proprio davanti all'Ariston e divertivo il pubblico di queste cene con le mie invenzioni e stravaganze.
Il nostro capo clan era Carlin di Bra, non era ancora il Carlin di Slow Food ma lavorava per l'Arcigola, un ente che promuoveva prodotti delle Langhe. Il trio Carlin, Giovanni e Azio, un personaggio che non era alto più di un metro e trenta, era un'istituzione al Tenco, come il duo delle sorelle Nete, due vecchine tutte imbellettate con i pomellini rossi sulle guance, con chitarra e banjo, poi portate in televisione da Arbore”.
Tra le stravaganze di Guido De Maria possiamo probabilmente annoverare quella del già citato gnocco fritto. “Non lo gnocco fritto, avverte il disegnatore-fumettista, nonché abile cuoco – se lo chiami così non si digerisce. Si deve dire il gnocco fritto, alla faccia di tutta la grammatica italiana. E' una crescentina che si mangia insieme all'affettato. Io sono un maestro del gnocco fritto. Un anno, sarà stato l'85 o giù di lì, affittai per una mattinata intera il bar di fronte al Casinò di Sanremo, impastai quindici chili di gnocco, avevo portato le padelle da casa, impegnai tutte le mogli dei soci del Club per friggere e distribuire a tutti la mia specialità”.

Dopocenisti al Tenco: le Sorelle Nete con Amilcare Rambaldi e Carlo Petrini
Alle loro spalle: Giovanni Ravinale e Azio Citi del Trio di Bra
Un tenchiano della prima ora, come Guccini e come un altro decano del Club che quest'anno tornerà sul palco, Roberto Vecchioni. “Ma sai che a casa mia ho il suo biliardo? Un giorno mi chiama Roberto e mi dice: “mi nasce un altro figlio, non so dove mettere il biliardo. Proprio due mesi fa ho rimesso a posto il panno ed è più nuovo di quanto non fosse quando l'ho preso”.
Guido De Maria è come una striscia che finisce avvisandoti: “continua nel prossimo episodio” perché potrebbe non smettere mai di raccontare, ma la domanda arriva secca: che differenza c'è tra la canzone e il fumetto? “Il fumetto è una sintesi straordinaria”, anche la canzone dico io. “il fumetto è la sintesi immediata di pura fantasia o di qualcosa che fa parte del quotidiano”, più o meno come la canzone ribatto. “E poi doveva far ridere. La canzone poteva anche non far ridere”. Insomma non si possono paragonare. “Se parliamo di una canzone di Guccini, vale 800 vignette. Le canzoni di Francesco io le paragono alle storie di grandi illustratori come Hugo Pratt o di uno Staino quando disegna delle storie a seguire. I miei disegni erano più banali, meno colti. Pratt con i suoi racconti di straordinario respiro è come Melville per la letteratura”.

Tra i disegnatori giovani c'è qualcuno che ha attirato la sua attenzione? “Zerocalcare mi piace molto, nel suo modo di rendere il segno mi ricorda Andrea Pazienza. Una volta Pazienza mi disse: “io posso disegnare tutto”. La ritenni una dichiarazione un po' presuntuosa, poi quando ho avuto il tempo di conoscere meglio tutto quello che aveva fatto, purtroppo quando non c'era più, pur avendolo frequentato tanto quando era in vita, ho capito veramente il valore di questa sua affermazione. Anche Zerocalcare ha questa capacità di disegnare come vuole, quando vuole tutto quello che vuole”
.
E il papà di voi tutti,  del fumetto in Italia chi è? “Benito Jacovitti, il più grande, un mostro di bravura. Purtroppo, il fatto di essere vissuto in una latitudine che lo ha costretto a lavorare in Italia, chiuso in una dimensione legata all'Azione Cattolica, gli ha impedito di diventare il più importante disegnatore di tutti i tempi in tutto il mondo. Basti pensare che disegnava senza avere la traccia di matita sotto, usava direttamente la penna con un tratto prima sottilissimo che ingrossava via via. Non faceva altro che ricopiare un disegno che aveva in testa e che proiettava idealmente su un foglio bianco. A 17 anni disegna Cin Cin, un'opera immensa, due anni dopo fa il primo Pinocchio che è il più bello di tutti quelli che ha fatto dopo. Scusa, ma quando parlo di Jacovitti vado fuori di testa. Giancarlo Governi ed io siamo riusciti a fargli assegnare lo Yellow Kid a Lucca pur avendo contro una buona parte della giuria perché era considerato uno di destra, ma invece la sai una cosa? Una volta Jacovitti mi mostra un disegno e mi chiede: cosa c'è scritto su quel muro? Ed io: “niente”. “Segui quella crepa” e mi indica con la punta della matita tra fessure, tratti e disegni che c'erano su quel muro, la scritta “Abbasso il Papa”, questo per dirti quanto fosse anticonformista.

Resta alla fine un solo dubbio, se le donne erano più conquistate dalle canzoni tristi (si fa per dire) di Guccini o dalla voglia di De Maria di farle ridere? “Ti rispondo così: se Francesco dice che ha imparato a suonare la chitarra perché così cuccava, io ho cominciato a disegnare per far sorridere i miei compagni di scuola”.



© Riproduzione riservata

domenica 5 luglio 2015

Militava tra gli astratti.
L'arte figurativa e non... Nel segno di Remo Remotti


Ha inciso tre dischi ma non era un musicista, giocava con l’arte senza un compare e, col passare degli anni, la voce dell’ultimo Remo di Roma somigliava sempre di più a quella del suo mito: il re del jazz Louis Armstrong.
Poeta situazionista, attore poetico, pittore e ancor prima scultore che del congedo senza possibilità d’appello aveva fatto la sua espressione artistica più emblematica.

Qualche giorno fa è “inspiegabilmente morto” Remo Remotti. Il virgolettato è l’incipit dell’Amaca di Michele Serra, che in un solo avverbio condensa una vita, quella del coloratissimo Remo, catalizzatore e dissipatore di un’altalenante stagione durata circa un secolo. Eppure una spiegazione io ce l’avrei: Remo ha deciso di andarsene perché era l’unico modo per raggiungere finalmente Laura Antonelli.

Quando ho saputo della sua scomparsa, mi sono ricordata di questa intervista del 2008, della sua vita da pittore e scultore, ignota ai più, dei suoi sette anni in Perù (e non potevano che essere sette). Gli anni ’60 con la distinzione tra artisti figurativi e non figurativi, della sua frase: “ho sofferto di complessi di inferiorità. La gioia di vivere nasce con gli anni, è come un albero che germoglia”. Il tutto partendo da un ritornello…

Una canzone che avresti voluto scrivere?

“Nel blu dipinto di blu”, un’esaltazione della vita, ci trovo un riferimento al “blu Klein”. Yves Klein è passato alla storia dell’arte per il suo blu metallico a cui forse fa riferimento Modugno.

Dove ti trovavi nel 1958, quando la canzone italiana volava con Modugno?
Uscivo dal manicomio in Perù, dove ero stato rinchiuso per una sciocchezza. Lì dentro mi procuravano abitualmente il coma insulinico. Dopo sette anni di Perù sono tornato a Roma distrutto, disoccupato, rovinato. Per fortuna, ho avuto solo due periodi così devastanti nella mia vita. Però, come tutti gli scorpioni dominati da Marte, grandi combattenti dello zodiaco, anche quella volta mi sono rialzato dalle ceneri. Fondamentale è stato l’aiuto di mia moglie, la prima, Luisa Loy, la sorella di Nanni. Sì perché io ho sposato due “Luisa”, Luisa Loy negli anni Sessanta e Luisa Pistoia, negli anni Ottanta.

Hai mai provato a suonare uno strumento?
Hai messo il dito nella piaga. Avrei pagato chissà quanto per poter suonare in un’orchestra jazz. Ho comprato per ben due volte una tromba. Sapevo suonare “La strada” di Rota e basta. Mio padre era un violinista, mia madre si era diplomata in pianoforte a “Santa Cecilia”, ma i miei genitori non mi hanno insegnato nulla. La colpa comunque è mia. La musica è il massimo, la tromba il mio sogno. Quando mi chiedono se per caso abbia fatto anche il musicista nella vita, rispondo: non ho avuto questo onore, come diceva Chaplin quando gli chiedevano se fosse ebreo. Un giorno, se guadagnerò un po’ di soldi, pagherò uno dei miei amici musicisti per farmi inserire in un’orchestra. Potrei chiederlo a Massimo Nunzi, farò finta di suonare, solo per il gusto di provare quell’emozione almeno una volta.

E le tue trombe dove sono finite?
Una l’ho regalata a Gianni Saint Just, perché era parente della mia prima moglie. La vita è fatta così, bisogna dare per ricevere. Non mi pento di averla regalata, anche perché poi, parliamoci chiaro, per suonare la tromba bisogna esercitarsi otto ore al giorno per quindici anni.

Per fare le previsioni dell’oroscopo quanto ci vuole?

Non confondiamo il dilettante con il professionista. Ci credo ciecamente e indovino spesso il segno zodiacale perché siamo fatti un po’ tutti con lo stampino. Nell’ultima guerra mondiale quattro grandi generali erano dello scorpione: Rommel, Patton, Montgomery, Zukov. Basta comprarsi un libretto da meno di 10 euro per farsi una cultura superficiale dei segni.

Il tuo ricordo più forte legato alla radio riguarda un annuncio…

Ero a piazza Quadrata, viale Liegi, in un bar con la radio accesa. Ascoltammo allibiti Mussolini che diceva dal Balcone di piazza Venezia: “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”. Sessanta milioni di morti lo stavano aspettando. Hai capito in che razza di mondo siamo cresciuti noi?

Però successivamente hai avuto modo di riabilitare la Germania, che in qualche modo aveva a che fare con questa dichiarazione, e di apprezzarla sotto altri aspetti…

Avevo lavorato con il pittore Emilio Vedova, sono arrivato a Berlino con una borsa di studio alla fine del ’67, alla vigilia del cosiddetto ’68 berlinese. Un periodo bellissimo che ho vissuto pienamente insieme alla mia prima moglie, la Loy.
Purtroppo poi mi sono innamorato di una tedesca e per la seconda volta in vita mia, non ultima, seconda, mi sono spogliato nudo in mezzo alla strada, sommerso dai sensi di colpa. Una macchina dei pompieri mi ha prelevato e mi ha portato nella clinica di Spandau,, a pochi metri di distanza dal carcere in cui era detenuto il braccio destro di Hitler, Rudolf Hess. Anche lui si occupava di segni zodiacali. Stranamente nel nazismo c’era un particolare interesse per l’astrologia. Poi, a novant’anni, Hess ha pensato bene di impiccarsi. Se l’avesse fatto prima sarebbe stato meglio.

Il disco a cui sei più legato è uscito proprio alla fine di quell’estate: “Hey Jude” dei Beatles.

Gioventù è sinonimo di stupidaggini che si fanno e di sofferenze. Per stare bene devi avere almeno settanta, ottanta anni, allora sì che stai come un Papa, perché fai le stesse cose che facevi a trenta con la differenza che lei fai bene, tranquillo e sereno, senza commettere grandi errori. Ero nell’atelier con questa ragazza per cui persi la testa e proprio mentre ci guardavano negli occhi, la radio trasmetteva “Hey Jude”.

Remo Remotti, senza diventare un musicista, ha inciso tre cd e tutti dopo gli 80 anni. 

Il momento migliore anche per la coppia: è l’amore più bello in senso totale, te lo dice il sottoscritto che è un addetto ai lavori. Invece, il grande Tyrone Power, poverino, a 44 era già morto, per non parlare di tanti altri.

Anche tante rockstar sono scomparse troppo presto.

Rino Gaetano, a trent'anni. Lasciamo perdere.

L’hai conosciuto?

No, ma semplicemente perché non si può seguire tutto. Io seguivo più che altro, il cinema, la pittura, il teatro. Però l’ho sentito. Come fai a non prestare l’orecchio a un tizio che dice “Nuntereggae più”? Ma vuoi sapere, invece, uno dei cantanti che più amo, di cui non abbiamo ancora parlato? E’ Leonard Cohen.

Poeta pittore, avete molte cose in comune… forse solo un po’ più mistico di te.

E’ stato addirittura chiuso in un convento per molti anni. Nella sua voce c’è la dolcezza e c’è la spiritualità. Io faccio la meditazione tutti i giorni. Vicino al mio letto ho il suo cd, mi metto lì in raccoglimento e ascolto “Tower of song” quando dice “Il mio destino è questo. Io sono nato con il dono di una voce d’oro”. Poi lo ascoltavo all’epoca di “Jesus was a sailor” negli anni’70 perché ero scappato da una tedesca che mi menava. Mi sono rifugiato in casa di amici a Monaco di Baviera e lì c’era questo disco che mandavo a ripetizione, mi piaceva da morire.

L’ultimo disco che hai comprato?

Me l’ha ordinato mia moglie: Bruce Springsteen. Devi sapere che io a casa mia conto molto poco. Stamane avevo indossato un paio di calzoni mimetici, ma Luisa mi ha detto: “se non te li levi, non ti faccio uscire”, ed io, come un bambino di sette anni, mi sono cambiato e ho avuto il permesso di varcare la soglia con un paio di calzoni normali, non mimetici.

Tra i libri da consigliare hai scelto “Consapevolezza” di Osho. Perché?

E’ stato un grandissimo. Potrei  paragonarlo senza paura di sbagliare a Freid, Jung, un grande cervello, un maestro spirituale che ci ha lasciato centinaia di libri, uno più bello dell’altro, che io leggo sempre con grande interesse.

Perché del Remo Remotti pittore si parla poco?

Il mio primo grande amore e la mia prima espressione artistica. Io ho cominciato tardi, a 35 anni, a quell’età Masaccio, Umberto Boccioni, Yves Klein, Piero Manzoni, Pino Pascali erano già morti. In qualsiasi campo dell’arte per concludere qualcosa devi avere un mercante alle spalle. Io sono nato nel cuore della borghesia romana. Per fortuna, non ho mai aspirato ai soldi, al denaro o al successo visto con il denaro. Ho scelto, si fa per dire, la miseria e l’umiltà che coincidono con la libertà d’azione. In tutti i campi, però, ci sono le mode e certi andazzi legati all’intervento del signor x o del signor y. Ho sofferto di complessi di inferiorità. La gioia di vivere nasce con gli anni, è come un albero che germoglia.

Le tue poesie quando sono arrivate?

Devo essere molto riconoscente a Maurizio Costanzo e al suo braccio destro Roberto Silvestri che, nel 1984, mi fecero fare “Mamma Roma addio” nel programma tv “Fascination”, prima ancora del “Maurizio Costanzo Show”. Piacque tanto la mia performance che mi chiesero di farne una a settimana “Me ne vado da Milano” “Me ne vado da Napoli” e via di seguito. Così sono nate le mie poesie.

Tornando alla pittura, te ne sei andato anche da piazza del Popolo?

Non mi parlare di questo. Noi a fare la vita mondana, a prendere contatti con la nobiltà romana di piazza del Popolo, non ci andavamo. E’ per questo che ci sono tanti pittori che sono rimasti sconosciuti come Tonino de Laurentis, Emiliano Tolve e altri. Non è che ci fossero solo Cunelli o Franco Angeli. Io non penso affatto che Angeli sia stato un grande pittore, ho le mie riserve anche su Schifano, nonostante abbia visto ultimamente una sua bellissima mostra.
Il discorso è complicato. Esiste l’ufficialità ed esiste l’underground. Ci sono stati dei pittori come Giuseppe Uncini che sono stati veramente dei grandi. Voglio spiegarmi meglio: Mario Schifano, che sia stato un pittore giovane, molto dotato, non ci piove. C’è stato un momento di grande creatività, ci sono stati dei pittori in tutto il mondo che si sono inventati un linguaggio. Il più grande è stato Marcell Duchamp, ma questi romani di Piazza del Popolo, a parte qualche eccezione, hanno scopiazzato la pop art americana, tanto che la loro opera viene definita pop art italiana.

Dove è possibile vedere le tue opere?
La Galleria Giraldi di Livorno, grazie a Dio, ha comprato negli anni molte mie cose, togliendomi dalla fame. Una mia opera è stata acquistata dalla direttrice della galleria d’Arte Moderna, Palma Bucarelli, un doppio cubo è esposto nella Galleria d’Arte comunale a Roma in via Capo le Case, a Berlino ho venduto qualche pezzo importante in due Musei. Per fortuna, aggiungo io, perché se fossi diventato un pittore importante sarebbe stato difficile fare l’attore. Te lo vedi il signor Guttuso che recita con Marco Bellocchio? Ho lavorato con gioia, interesse e ingoiando qualche boccone amaro per vent’anni e passa. Però poi sono uscito dal ghetto della pittura e ho vissuto nel campo del cinema, dell’editoria, del teatro.

Qual era la tua scuola di riferimento?

A Milano c’erano Castellani, Manzoni, Sordini, mentre a Roma, Giuseppe Uncini, il Gruppo Uno, Tonino De Laurentis, Gastone Novelli, Eugenio Santoro, Guido Strazza, Marcolino Gandini.
Con Attilio Pierelli Pizzo Greco, Lorenzini, Icaro, Gino Marotta, avevo formato il gruppo “La nuova scultura italiana”. Purtroppo negli anni ’60 c’era questa distinzione tra artisti figurativi e non figurativi. Io personalmente militavo tra gli astratti.


© Riproduzione riservata


lunedì 9 febbraio 2015

Aspettando Felicità

Nella vasta letteratura fiorita in questi giorni sull'argomento, qualche curiosità sul brano simbolo della reunion "Al Bano e Romina"


Canzone “ad libitum” per eccellenza, ha scritto Gianni Borgna nel suo “L’Italia di Sanremo”. Ad libitum riguardo all’impianto musicale, ma anche riguardo al testo, dove la parola “felicità” è ripetuta 28 volte.
Scritta da Cristiano Minellono, Dario Farina e Gino De Stefani e prodotta dallo stesso Farina, è un esempio di synth-pop italiano con un’anima pugliese: l’ossessiva iterazione ritmica che la caratterizza, ne fa una pizzica griffata anni ’80.
E poi, naturalmente, l'interpretazione: se Al Bano ci mette le radici, Romina accende il suo “power”.

Al Festival di Sanremo 1982, dove la canzone si classifica al secondo posto, si canta dal vivo su base registrata e senza l’ausilio del gobbo elettronico, una stampella che verrà introdotta molti anni dopo.

La figlia del grande Tyrone appare spavalda e sicura di sé, Al Bano disorientato, entra in ritardo, poi recupera ma ha dei vuoti di memoria sul testo, ecco perché non stacca lo sguardo da Romina, che lo aiuta suggerendogli le parole, proprio mentre la telecamera intercetta le sue labbra. E’ lei la più amata dagli italiani, la vera artefice del rilancio discografico dell’ugola di Cellino reduce da anni di tour all’estero e di silenzio in patria.

“Una mamma in superclassifica”, titola Sorrisi & Canzoni TV del 5 marzo 1982, segnalando la presenza in hit parade di ben tre brani interpretati dalla Power, da sola o in coppia: “Sharazan”, “Il ballo del qua qua” e, naturalmente, “Felicità”.
Tutto merito dell’intuito di Freddy Naggiar della Baby Records, l’etichetta che sbanca il botteghino puntando tutto sulla bellezza e la dolcezza della figlia d’arte. Vincitori morali di quel Festival, Al Bano & Romina Power conquistano il primo posto la volta successiva, nel 1984, sempre per quella legge non scritta della compensazione che a Sanremo trova puntuale applicazione.
t

Minellono, autore del testo, racconta di essersi ispirato ai fidanzatini della serie “Love is…” della vignettista Kim Grove e di averla scritta all’Union Studio di Monaco di Baviera, poco prima della registrazione: “Ero in clamoroso ritardo. Naggiar mi rinchiuse in una stanza con carta, penna, birra e sigarette, dicendomi che mi avrebbe fatto uscire solo col testo finito. Gli consegnai 25 strofe: "Ecco qua… scegliti le 15 che preferisci. Il suo commento fu che felicità era una parola d’antan. Gli risposi che presto sarebbe ritornata di moda. Risultato: 10 milioni di copie nel mondo”. Oltre a un Golden Globe in Germania per il disco più venduto dell’anno.
“Quando Naggiar me la propose – gli fa eco Al Bano - accettai subito, perché venivamo fuori da quindici anni di Italia vestita a lutto. Per fortuna all’inizio degli anni Ottanta le cose erano mutate e noi lo volevamo ribadire, con un semplice inno. In quel periodo i cantanti ricorrevano ai mezzi più stravaganti per imporsi, le nostre canzoni erano invece pulite, e pertanto, controcorrente. Esaltavano i valori della gente normale, che erano anche valori universali. Era il mio modo di gridare: ora parliamo della cultura della semplicità.”

Tradotta in spagnolo, “Felicidad”, è stata utilizzata per lo spot di un’automobile Skoda in Spagna e di un caffè in Cile. Vanta il maggior numero di parodie, da Jerry Calà nel film “Bomber” (“Felicità è mangiare un panino con dentro un bambino, la felicità”) a Neri Marcorè e Luca Barbarossa che al Concerto del Primo Maggio 2011 diventano “Alfano e Romina”: “Immunità, è votare una legge che ti protegge, immunità, ti cancella un reato con un decreto, immunità (…) l’evasione fiscale diventa legale con l’immunità”.

Popolarissima in Russia, è oggi, con il titolo “Με μια σου ματιά”, in classifica in Grecia nella versione di Yiannis Ploutarxos in coppia con Al Bano.


© Riproduzione riservata