sabato 13 dicembre 2014

Mango, il canto e il disincanto


Nel 1985, quando la Basilicata ancora non esisteva, un cantante lucano e per giunta del paese confinante con il mio, apparve sul palco del Festival di Sanremo. All’epoca, l’unica della famiglia che difendeva la visione rituale del festival, quasi fosse una ragion di Stato, con tanto di pronostici, analisi sociologiche e la scelta del 45 giri da comprare all’indomani, era mia nonna Amina.
Ricordo perfettamente quel senso di ansia da prestazione che provai io per Mango, sulla cui esibizione avevo riposto tutte le mie aspettative, per ardori squisitamente campanilistici, ovviamente.
Capello lungo, look new wave e una voce così poco convenzionale che pensai che nonna non l'avrebbe capito e che la nostra gloria locale avesse sprecato la sua grande occasione. Ecco la parola magica di questa piccola riflessione.

Leggevo in questi giorni parole di disapprovazione nei post di alcuni social-amici nei confronti della stampa e dei media in generale pronti a versare lacrime di coccodrillo (non a caso così si chiama il necrologio in gergo giornalistico) per la scomparsa di Mango. Non sono molto d'accordo. Se spesso corrisponde al vero la freddura di Jean Cocteau per cui “bisogna essere un uomo vivo e un artista postumo”, non è certo questo il caso. Pino Mango ha avuto una dorata e lunga carriera, a ventidue anni aveva già inciso il primo LP con la RCA e poi due album, con la Numero Uno e con la Fonit Cetra, prima di debuttare nella categoria “Giovani” a Sanremo. Sette le occasioni nella kermesse festivaliera, l'ultima nel 2007, e le sue canzoni più note, a parte “Lei verrà”, non sono di certo quelle presentate su quel palco.
Questo per dire che Mango fa parte di quella generazione nata nella culla della discografia, anni in cui un debuttante poteva fare quattro Sanremo giovani consecutivi per vincerne uno, come pure è accaduto. Oggi dicono che sarebbe impensabile. Tutto brucia rapidamente, una sola carta se sei fortunato e da giocare pure in fretta.
Mango nel suo background musicale aveva sedimentato tutto il pop-rock più raffinato, dagli Steely Dan e i Blue Nile a Cat Stevens, David Bowie e Peter Gabriel, e la sua voce, il suo modo di cantare, altro non erano che la trasposizione della tradizione orale contadina in ambito pop. Non lo capivo a 10 anni mentre ascoltando “Lei verrà” non sapevo come classificarla, l'ho capito pochissimo tempo fa, quando ho sentito Mango cantare in dialetto.
Amici vi rassicuro, Pino Mango non era affatto uno sconosciuto, né dimenticato o abbandonato, sono davvero altri gli artisti che hanno avuto o rischiano questo ingiusto destino. Ho puntualmente intervistato Mango in appuntamenti organizzati dalle sue major discografiche per l'uscita di dischi o libri, l'ho incontrato l'ultima volta a giugno a Musicultura, nello splendido scenario (come si dice per le grandi occasioni) dello Sferisterio di Macerata. Ho scartabellato un po' tra i miei file per il puro piacere di rileggere le sue risposte, estraggo due brevi interviste e una foto anni '80 che lo ritrae sulla Fondovalle del Noce, strada statale 585, quella che si vede alla sue spalle è casa mia...



Intervista del 2002 – per la pubblicazione del cd “Disincanto”

Un modo di cantare originale e unico nei suoi “falsetti”, anche se lui non li chiama tali perché “sorgono naturalmente senza falsare la voce”. Dopo cinque anni di assenza Mango ritorna con un nuovo disco, proponendo le sue tipiche atmosfere eteree e sognanti in “Disincanto”, album che lo vede impegnato per la prima volta anche come autore dei testi.
Privilegia, a ragione, la sezione degli archi e la affida ai maestri Petruzzi e Buonvino, mentre la beatlesmania contagia anche lui in un’esecuzione a più voci di “Michelle”.

Pino Mango autore dei testi. Vuol dire un distacco da suo fratello Armando o da altri suoi collaboratori storici?

Naturalmente no. Forse ho solo realizzato un sogno che covavo da tempo, o il risultato di una maturità individuale. Armando è molto impegnato in altre produzioni. Avevo a disposizione persino testi di Mogol e di Tiziano Ferro e non li ho utilizzati, anche se nel disco li ho citati tra i ringraziamenti.

Qual è stata la vera ispirazione?

Ho avuto un po’ più di tempo per guardarmi intorno e sentire il bisogno di un disco con dodici espressioni importanti. In quello che ascolto sento un po’ di noia. Spesso i cd sono pieni di riempitivi o di sperimentazioni sterili. E’ difficile trovare un disco bello dalla prima all’ultima canzone. Finora l’unico che c’è riuscito è stato Battisti con “Il mio canto libero”.

Ritorna la metafora del volo e del viaggio nei suoi brani.

Forse perché provenendo da Lagonegro, un piccolo centro della Lucania, mi è rimasta ancora quella voglia di uscire al di fuori, la tensione a spiccare il volo che nutrivo fin da bambino.

Lo scenario e il background dei suoi pezzi è da rintracciare ancora nel Mediterraneo?

Privilegio certe sonorità dette “mediterranee”. Ma non nel senso di etnico, una parola abusata. Anche “Oro” aveva delle sonorità etniche, ma sono passati diciotto anni. Se per “suoni mediterranei” intendiamo world music, sono d’accordo. Ma questo mi avvicina molto di più a Peter Gabriel, che però è inglese.

Lei ha scritto per molte interpreti come Patty Pravo, la Bertè ed altre. Come procede questa sua attività?
Mi arrivano proposte in continuazione. Mi piacerebbe lavorare con tutti, ma sono troppo legato al mio mondo. Sono un po’ contrario a certi meccanismi su commissione. Io scrivo quello che sento, non scrivo per chi canta. Se poi quella situazione calza sul carattere di un interprete, allora la canzone diventa sua. Ma è difficile fare delle produzioni come le intendo io. O ti innamori e ti entusiasmi su un progetto o non se ne fa nulla. Non basta realizzare il pezzo in sé; ho bisogno di seguire tutto il processo della lavorazione. Cosa non facile, perché ogni artista generalmente si affida  al proprio entourage.


Intervista del 2004 – per l'uscita del libro di poesie “Nel malamente mondo non ti trovo” e del cd “Ti porto in Africa”

'La voglia di poesia era nell'aria', ha detto Mango usando un'espressione che innegabilmente gli si addice. Da sempre attento alle sonorità e alle melodie del Mediterraneo ('bacino che offre un mondo sonoro shakerato'), il cantautore lucano nel libro 'Nel malamente mondo non ti trovo' tratteggia paesaggi, penombre, antichi sogni, tra frasche di menta e logge infuocate dal sole, mentre “il piede dà il tempo a un tranquillo lamento”. Del suo primo volume di poesie e dell'ansia di tirar fuori la sua musicalità ariosa, Mango parla volentieri nei sempre più frequenti incontri nei campus, nei teatri o nella stiva di una libreria.

Un disco fortunato, un libro, un tour. A quando l'esordio cinematografico o il musical?


Come attore mi sentirei ridicolo, in imbarazzo. Non credo che ci sarà questo tipo di debutto. Certo, il mondo delle immagini ha un suo fascino irresistibile. Ho curato personalmente il montaggio del mio video, valutando gli storyboard e la lavorazione passo dopo passo. Questo perché più si va avanti e più si ha bisogno di sfumature che gli altri non ti possono dare. L'arte è un'esperienza globale, non un fatto casuale. Non si finisce mai, in questo lavoro come in tutti gli altri. Basta guardare all'esperienza degli artigiani di un tempo, come mio padre. Papà faceva il muratore e la casa in cui vivo a Lagonegro, l'ha costruita lui, mattone dopo mattone; ha fatto le porte, ha fatto le finestre. L'arte è la voglia di appropriarsi di qualcosa di se stessi che non abbiamo ancora esplorato.

Quando ha scoperto la sua passione per la poesia?


Ho cominciato a scrivere due anni fa. E' da poco, quindi, che ho scoperto la poesia come scrittura, come liberazione dell'anima quando chiede aiuto. La poesia è una danza infinita, è qualcosa che parte dai poeti che ti hanno folgorato, ma anche da noiose letture giovanili, e si scompone in mille mosaici attuali.

Mogol, Panella e Lucio Dalla, sfumature diverse per i suoi testi...

Ogni canzone ha soltanto un testo. Tocca poi all'autore tirare fuori ciò che la melodia ha già dentro. Mogol e Panella si sono ritrovati a dover rispettare una ricerca già fatta da me in precedenza sui suoni. Quando ho scritto “Forse che si , forse che no” ho sentito, nella scansione del pezzo, qualcosa che apparteneva a Lucio, uno dei primi a fare una canzone basata su una sola nota e senza melodia. Straordinario.

Cos'è per lei il successo?

Dopo i primi tre dischi, mi ero iscritto all'Università per studiare sociologia. Poi ho scritto “Oro” e la mia vita è cambiata radicalmente. Ho cominciato a vestirmi e a truccarmi in un certo modo e la gente ha cominciato ad accorgersi di me. Il successo è arrivato grazie a Giulio Rapetti che un giorno ha detto: “questo è un fior di musicista”. Le mie canzoni appassionano, lo vedo dai contatti sul mio sito, attraverso il quale dialogo con gente profonda, colta e sensibile: Baglioni, tanto perché siamo a Roma, non ce l'ha un pubblico come il mio.



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