sabato 13 dicembre 2014

Mango, il canto e il disincanto


Nel 1985, quando la Basilicata ancora non esisteva, un cantante lucano e per giunta del paese confinante con il mio, apparve sul palco del Festival di Sanremo. All’epoca, l’unica della famiglia che difendeva la visione rituale del festival, quasi fosse una ragion di Stato, con tanto di pronostici, analisi sociologiche e la scelta del 45 giri da comprare all’indomani, era mia nonna Amina.
Ricordo perfettamente quel senso di ansia da prestazione che provai io per Mango, sulla cui esibizione avevo riposto tutte le mie aspettative, per ardori squisitamente campanilistici, ovviamente.
Capello lungo, look new wave e una voce così poco convenzionale che pensai che nonna non l'avrebbe capito e che la nostra gloria locale avesse sprecato la sua grande occasione. Ecco la parola magica di questa piccola riflessione.

Leggevo in questi giorni parole di disapprovazione nei post di alcuni social-amici nei confronti della stampa e dei media in generale pronti a versare lacrime di coccodrillo (non a caso così si chiama il necrologio in gergo giornalistico) per la scomparsa di Mango. Non sono molto d'accordo. Se spesso corrisponde al vero la freddura di Jean Cocteau per cui “bisogna essere un uomo vivo e un artista postumo”, non è certo questo il caso. Pino Mango ha avuto una dorata e lunga carriera, a ventidue anni aveva già inciso il primo LP con la RCA e poi due album, con la Numero Uno e con la Fonit Cetra, prima di debuttare nella categoria “Giovani” a Sanremo. Sette le occasioni nella kermesse festivaliera, l'ultima nel 2007, e le sue canzoni più note, a parte “Lei verrà”, non sono di certo quelle presentate su quel palco.
Questo per dire che Mango fa parte di quella generazione nata nella culla della discografia, anni in cui un debuttante poteva fare quattro Sanremo giovani consecutivi per vincerne uno, come pure è accaduto. Oggi dicono che sarebbe impensabile. Tutto brucia rapidamente, una sola carta se sei fortunato e da giocare pure in fretta.
Mango nel suo background musicale aveva sedimentato tutto il pop-rock più raffinato, dagli Steely Dan e i Blue Nile a Cat Stevens, David Bowie e Peter Gabriel, e la sua voce, il suo modo di cantare, altro non erano che la trasposizione della tradizione orale contadina in ambito pop. Non lo capivo a 10 anni mentre ascoltando “Lei verrà” non sapevo come classificarla, l'ho capito pochissimo tempo fa, quando ho sentito Mango cantare in dialetto.
Amici vi rassicuro, Pino Mango non era affatto uno sconosciuto, né dimenticato o abbandonato, sono davvero altri gli artisti che hanno avuto o rischiano questo ingiusto destino. Ho puntualmente intervistato Mango in appuntamenti organizzati dalle sue major discografiche per l'uscita di dischi o libri, l'ho incontrato l'ultima volta a giugno a Musicultura, nello splendido scenario (come si dice per le grandi occasioni) dello Sferisterio di Macerata. Ho scartabellato un po' tra i miei file per il puro piacere di rileggere le sue risposte, estraggo due brevi interviste e una foto anni '80 che lo ritrae sulla Fondovalle del Noce, strada statale 585, quella che si vede alla sue spalle è casa mia...



Intervista del 2002 – per la pubblicazione del cd “Disincanto”

Un modo di cantare originale e unico nei suoi “falsetti”, anche se lui non li chiama tali perché “sorgono naturalmente senza falsare la voce”. Dopo cinque anni di assenza Mango ritorna con un nuovo disco, proponendo le sue tipiche atmosfere eteree e sognanti in “Disincanto”, album che lo vede impegnato per la prima volta anche come autore dei testi.
Privilegia, a ragione, la sezione degli archi e la affida ai maestri Petruzzi e Buonvino, mentre la beatlesmania contagia anche lui in un’esecuzione a più voci di “Michelle”.

Pino Mango autore dei testi. Vuol dire un distacco da suo fratello Armando o da altri suoi collaboratori storici?

Naturalmente no. Forse ho solo realizzato un sogno che covavo da tempo, o il risultato di una maturità individuale. Armando è molto impegnato in altre produzioni. Avevo a disposizione persino testi di Mogol e di Tiziano Ferro e non li ho utilizzati, anche se nel disco li ho citati tra i ringraziamenti.

Qual è stata la vera ispirazione?

Ho avuto un po’ più di tempo per guardarmi intorno e sentire il bisogno di un disco con dodici espressioni importanti. In quello che ascolto sento un po’ di noia. Spesso i cd sono pieni di riempitivi o di sperimentazioni sterili. E’ difficile trovare un disco bello dalla prima all’ultima canzone. Finora l’unico che c’è riuscito è stato Battisti con “Il mio canto libero”.

Ritorna la metafora del volo e del viaggio nei suoi brani.

Forse perché provenendo da Lagonegro, un piccolo centro della Lucania, mi è rimasta ancora quella voglia di uscire al di fuori, la tensione a spiccare il volo che nutrivo fin da bambino.

Lo scenario e il background dei suoi pezzi è da rintracciare ancora nel Mediterraneo?

Privilegio certe sonorità dette “mediterranee”. Ma non nel senso di etnico, una parola abusata. Anche “Oro” aveva delle sonorità etniche, ma sono passati diciotto anni. Se per “suoni mediterranei” intendiamo world music, sono d’accordo. Ma questo mi avvicina molto di più a Peter Gabriel, che però è inglese.

Lei ha scritto per molte interpreti come Patty Pravo, la Bertè ed altre. Come procede questa sua attività?
Mi arrivano proposte in continuazione. Mi piacerebbe lavorare con tutti, ma sono troppo legato al mio mondo. Sono un po’ contrario a certi meccanismi su commissione. Io scrivo quello che sento, non scrivo per chi canta. Se poi quella situazione calza sul carattere di un interprete, allora la canzone diventa sua. Ma è difficile fare delle produzioni come le intendo io. O ti innamori e ti entusiasmi su un progetto o non se ne fa nulla. Non basta realizzare il pezzo in sé; ho bisogno di seguire tutto il processo della lavorazione. Cosa non facile, perché ogni artista generalmente si affida  al proprio entourage.


Intervista del 2004 – per l'uscita del libro di poesie “Nel malamente mondo non ti trovo” e del cd “Ti porto in Africa”

'La voglia di poesia era nell'aria', ha detto Mango usando un'espressione che innegabilmente gli si addice. Da sempre attento alle sonorità e alle melodie del Mediterraneo ('bacino che offre un mondo sonoro shakerato'), il cantautore lucano nel libro 'Nel malamente mondo non ti trovo' tratteggia paesaggi, penombre, antichi sogni, tra frasche di menta e logge infuocate dal sole, mentre “il piede dà il tempo a un tranquillo lamento”. Del suo primo volume di poesie e dell'ansia di tirar fuori la sua musicalità ariosa, Mango parla volentieri nei sempre più frequenti incontri nei campus, nei teatri o nella stiva di una libreria.

Un disco fortunato, un libro, un tour. A quando l'esordio cinematografico o il musical?


Come attore mi sentirei ridicolo, in imbarazzo. Non credo che ci sarà questo tipo di debutto. Certo, il mondo delle immagini ha un suo fascino irresistibile. Ho curato personalmente il montaggio del mio video, valutando gli storyboard e la lavorazione passo dopo passo. Questo perché più si va avanti e più si ha bisogno di sfumature che gli altri non ti possono dare. L'arte è un'esperienza globale, non un fatto casuale. Non si finisce mai, in questo lavoro come in tutti gli altri. Basta guardare all'esperienza degli artigiani di un tempo, come mio padre. Papà faceva il muratore e la casa in cui vivo a Lagonegro, l'ha costruita lui, mattone dopo mattone; ha fatto le porte, ha fatto le finestre. L'arte è la voglia di appropriarsi di qualcosa di se stessi che non abbiamo ancora esplorato.

Quando ha scoperto la sua passione per la poesia?


Ho cominciato a scrivere due anni fa. E' da poco, quindi, che ho scoperto la poesia come scrittura, come liberazione dell'anima quando chiede aiuto. La poesia è una danza infinita, è qualcosa che parte dai poeti che ti hanno folgorato, ma anche da noiose letture giovanili, e si scompone in mille mosaici attuali.

Mogol, Panella e Lucio Dalla, sfumature diverse per i suoi testi...

Ogni canzone ha soltanto un testo. Tocca poi all'autore tirare fuori ciò che la melodia ha già dentro. Mogol e Panella si sono ritrovati a dover rispettare una ricerca già fatta da me in precedenza sui suoni. Quando ho scritto “Forse che si , forse che no” ho sentito, nella scansione del pezzo, qualcosa che apparteneva a Lucio, uno dei primi a fare una canzone basata su una sola nota e senza melodia. Straordinario.

Cos'è per lei il successo?

Dopo i primi tre dischi, mi ero iscritto all'Università per studiare sociologia. Poi ho scritto “Oro” e la mia vita è cambiata radicalmente. Ho cominciato a vestirmi e a truccarmi in un certo modo e la gente ha cominciato ad accorgersi di me. Il successo è arrivato grazie a Giulio Rapetti che un giorno ha detto: “questo è un fior di musicista”. Le mie canzoni appassionano, lo vedo dai contatti sul mio sito, attraverso il quale dialogo con gente profonda, colta e sensibile: Baglioni, tanto perché siamo a Roma, non ce l'ha un pubblico come il mio.



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giovedì 20 novembre 2014

Cercavi giustizia, ma trovasti la legge...

Michelino, Silvestro e Brioche: un racconto che non cade in prescrizione



Pareti, lastre piane, coperture ondulate, rivestimento tetti, pannelli, pannelli isolanti, ceramiche, supporto piastrelle, pavimentazione tubi, isolamento termico, caldaie, cemento per manto di copertura, cemento per forni, intonaci e stucchi, pitture, vernici, asbesto spray per isolamento acustico, isolamento termico per pareti, pavimenti, materassi, guaine materiale elettrico, condotte per fognature, strato di fondo carrozzerie autoveicoli, tessuti, nastri, guarnizioni di freni, dischi frizione, filtri per maschere antigas, guarnizioni ad anello, tubi, stoppini, funi, spago, filo da cucire, rivestimento conduttori elettrici, rivestimento di cavi, materassi, indumenti, guanti, grembiali, drappeggi tappezzerie, coperture, sacchi postali, tende, tappeti, sipari teatrali, scenari teatrali e rivestimenti pavimento in teatri, trattamenti acustici, filtri, rivestimenti, imbottiture, attrezzature mediche, protezioni antifiamma, sacchi di sabbia, nastri trasportatori, accessori per velivoli, tovaglie per tavoli da stiro, imbottiture pianoforti, avvolgimento bobine, coibentazioni per tetti, guarnizioni, stoppini, tubi, rivestimenti stufe, condotti di scarico per automobili, teglie per forni, imbottiture e stuoie da tavola, condutture d'aria, caloriferi, casseforti, cabine di proiezione cinematografica, macchine lavaggio a secco, inceneritori rifiuti, forni, pareti tagliafiamma, soffittature, guarnizioni, porte antifiamma, stuoie da tavola, tubi per condutture acqua, fognature, condutture gas, portalampade, parti di commutatori, montature resistenti ed altri usi per materiale elettrico come isolamenti sotterranei e pavimenti, vari impieghi in materie plastiche… 


Le famigerate onduline di eternit sono solo un aspetto del problema: l’amianto è stato utilizzato soprattutto negli anni ’50 e ’60 nella realizzazione di oltre 3000 prodotti industriali.

Arriva nel 1992 la legge 257 che, con un ritardo criminale, ha messo al bando la fibra killer (vietandone l’estrazione, l’uso e la commercializzazione) e ha tentato di imporre la bonifica di ogni luogo in cui fosse presente.

Sono passati altri anni e altre sentenze, ma tale risanamento è ben lungi dall’essere completato (nella migliore delle ipotesi) o avviato del tutto (nella maggior parte dei casi). 
Una fibra assassina capace di appostarsi nei polmoni e premeditare il suo agguato per 20, 30, 40 anni. Amianto, detto anche asbesto, il  “miglior termodispersore al mondo”… In sé non è pericoloso: lo diventa quando si usura e le piccolissime particelle di cui è composto si disperdono e vengono inalate. Allora vanno a concentrarsi nei bronchi, negli alveoli polmonari e nella pleura e provocano il mesotelioma pleurico, il tumore causato esclusivamente da inalazione di microfibre di amianto. Che dire poi del carcinoma laringeo e dell’asbestosi, il primo stadio della malattia che comporta gravi minorazioni cardiocircolatorie. 

La cronologia è prodiga di dettagli. Nel 1915 vengono messe in commercio le famose fioriere in Eternit, così è chiamata la fibra “eterna”, in un impeto futurista dall’austriaco che l’ha brevettata.
Nel 1928 inizia la produzione di tubi in fibrocemento, che fino agli anni '70 rappresenteranno lo standard nella costruzione di acquedotti. Nel 1933 fanno la loro comparsa le lastre ondulate, in seguito usate spesso per tetti e capannoni. Negli anni ‘40 e ‘50 l'eternit trova impiego in parecchi oggetti di uso quotidiano. Il più famoso è probabilmente la sedia da spiaggia di Willy Guhl. Sai che giovamento anche sotto il sole. E così via, fino a raggiungere i famigerati 3000 prodotti industriali. Realizzati non solo a Bari, ma anche alla Eternit di Casale Monferrato (la più grande d’Italia), di Cavagnolo, di Bagnoli e di Rubiera, alla Sacelit di San Filippo del Mela in Sicilia, a Senigallia, alla Italcementi di Trento, e nella vicina Molina di Ledro, alla Cemamit di Fermentino, i Nuovi Cantieri Apuani di Marina di Massa, a Monfalcone, a Reggio Emilia e alla Breda di Sesto San Giovanni, solo per citarne alcuni… 


Più volte, nel tempo, gli operai hanno protestato per la mancanza di respiratori, per lo spazio angusto e nocivo, per il rumore assordante. Solo costi aggiuntivi e una conseguente perdita di competitività, figuriamoci.  


Dei danni provocati dall'amianto si parla già nel 1898, ma l’allarme viene naturalmente ignorato. E’ solo intorno al 1960 che la comunità scientifica riconosce che il materiale può provocare il cancro. 
Nel 1911 partono i test sui topi. Nel 1917 le autorità inglesi si limitano a raccomandare di areare i locali. Nel 1932 i sindacati lanciano il primo serio allarme. 
Tra il 1955 e il 1960 vengono pubblicati gli studi di Doll, Sleggs e Wagner sulle connessioni tra cancro e amianto. Nel 1986 l’Agenzia internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul cancro dichiara che tutti i tipi di amianto sono cancerogeni e, pertanto, non esistono soglie di sicurezza per chi vi si espone. Pensate che fino alla fine degli anni ’80, l’Italia è stata il secondo paese produttore di amianto in Europa, dopo l’Unione Sovietica. 


Giugno 2007: siamo a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, la città operaia delle grandi fabbriche come la Breda, la Marelli, la Falck. 

Il francese Pierre George nei suoi studi di geografia umana e sociale cita Sesto come esempio di "banlieue renversee (periferia rovesciata). Una periferia dove la gente non tornava a dormire ma veniva a lavorare. 42.000 operai stanchi e assonnati nel periodo più frenetico.

Michele Michelino
Il profilo di Lenin e il famoso primo piano del Che con sigaro, nella foto di Renè Burri del ’63, ci accolgono nel Centro di iniziativa proletaria “G. Tagarelli”. Dicono che siamo in provincia di Milano, ma è Milano, il suo cosiddetto hinterland, dalla stazione si arriva in tram. 

Giovambattista Tagarelli lavorava alla Breda, reparto aste leggere (aste trivellatrici per la ricerca del petrolio). Era l’unico reparto in Italia dove si utilizzava il metodo di saldatura detto “a scintillio”. 

La saldatrice arrivò dagli Stati Uniti già con una pessima fama. La macchina era coperta da un telo d’amianto per raffreddare i pezzi e al tempo stesso riparare l’operaio. In realtà il telo si surriscaldava e l’addetto lo respirava. 

Di 26 tute blu che hanno lavorato alle “aste” tra il 1973 e il 1989, 9 i sopravvissuti… Tagarelli è morto nel 1999. La Breda Fucine, fondata nel 1886 col nome E.Breda & C. chiude i battenti 2 anni prima, nel 1997.  


Raccogliamo le testimonianze degli ex operai che incontriamo: Michele Michelino, Silvestro Capelli, sua moglie Rosella Piazzoni, Daniela Trollio, Corrado Santomartino, Pasquale Giornaliero, Nicola Colucci e un ex della Marelli, Matteo Giordano. E’ una riserva operaia, il nucleo di una lunga battaglia iniziata con Tagarelli, con Franco Camporeale, Giuseppe Gobbo ed altri che non ci sono più. Hanno scritto un libro che racconta come loro siano riusciti «a portare sul banco degli imputati non solo i dirigenti di una fabbrica “di morte” ma un sistema economico che, in nome del profitto, calpesta, avvelena e uccide uomini e natura.» 
Qui il veleno si chiama amianto. Ma potrebbe chiamarsi arsenico, come a Manfredonia, diossina come a Seveso o CVM come a Porto Marghera. 

Prima di sederci a tavola, Michele Michelino, presidente del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio di Sesto San Giovanni, ci mostra un 45 giri autoprodotto con i canti incisi dal Coro degli operai della Breda. Sembra di stare in uno di quei Bar à Book spuntati come funghi a San Lorenzo a Roma, se non fosse per gli oggetti appartenuti alle vittime del lavoro, per le bacheche piene di rabbia e di orgoglio.

Michele Michelino dovrebbero brevettarlo, come ha fatto la Nintendo con l’idraulico Super Mario. E’ buffo, ma gli somiglia. Mette la prima salopette nel ‘69 a 16 anni per entrare alla Pirelli, reparto produzione cavi elettrici. Niente male come anno di battesimo. Poi in Breda, dal ’76 al ’97.
«Quando ho cominciato a lavorare – racconta Michele – gli operai erano 6.200.000. Oggi, malgrado la delocalizzazione, nonostante non ci siano più le grandi fabbriche, gli operai sono 6.450.000. Sembra incredibile, ma sono aumentati, sono 250.000 in più del ’69, ma sono divisi, sparpagliati. 

Ecco perché gli operai non hanno più la consapevolezza di esserci e credono a quello che dice che gli operai non esistono più.» 

Il pranzo scatena l’aneddotica e instilla il buonumore. Michele svela la famosa leggenda del “panino retribuito”. Ai tempi della cassa integrazione alla Breda, l’azienda andava avanti con 800 lavoratori fuori e 800 dentro. Poiché gli 800 “graziati” dovevano lavorare anche per gli 800 rifiutati, i cassintegrati organizzavano dei veri e propri picchetti gastronomici offrendo il panino a quelli di turno, una cooperativa organizzata col fondo cassa degli scioperanti. 


Poi Michele ci racconta di Brioche. Il suo nome è Giuseppe, un pugliese emigrato a Milano, come tanti. All’inizio viveva di espedienti, si aggirava sempre dalle parti della fabbrica. Finché un giorno si apposta vicino al bar della Breda, quello che apriva alle 5 del mattino, appena in tempo per il primo turno in fabbrica. Gli operai arrivavano da tutta la provincia, un via vai di pullman da Brescia, Bergamo e da tutta la Brianza. Approfittando del bar ancora vuoto, Giuseppe entra e punta una pistola giocattolo contro il barista. 


«La cassa è vuota, non lo vedi che gli operai non sono ancora arrivati?» borbotta il proprietario del bar continuando ad asciugare i suoi bicchieri. «Allora dammi il cappuccino e tutte le briosches» risponde Giuseppe. Più che l’onor potè il digiuno, verrebbe da dire, ma un metronotte che passava davanti al bar vede la pistola poggiata sul bancone e chiama la polizia. Picchiato in questura, ma rilasciato. Il barista, naturalmente, non aveva sporto denuncia. 

Da allora Giuseppe diventa per sempre e per tutti Brioche. Anche perché dopo qualche mese, Michelino se lo ritrova in Breda, a lavorare nella sua squadra, nel suo stesso reparto. 

Tra gli “emigranti” anche molti lucani. Come Nicola Colucci che ci racconta del merlo comunista. Viveva in una trattoria sotto il ponte della Breda e dalla sua gabbietta ha partecipato alle manifestazioni, ha condiviso gli scioperi, ha mandato a memoria i canti di lotta che gli operai intonavano davanti ai cancelli. E’ stato il cantore solitario di 20 anni di vita di fabbrica. «Fischiava il motivo di Bandiera rossa che era uno spasso. Se poi era in vena, te la faceva tutta, dall’inizio alla fine». 


Quanto di più lontano dal canto forte e puro del merlo, è purtroppo la voce di un altro operaio, Silvestro Cappelli operato alla laringe per sradicare un cancro da amianto. Adesso parla attraverso un foro praticato nella trachea. E’ spesso il testimonial – se così si può dire – della lotta del Comitato. Ha portato la sua storia a teatro con Frankenstein, atto unico in forma di oratorio della Compagnia degli Stracci e del Gruppo Monbotan.

Silvestro Capelli
…Sapeva dell’esistenza di un sistema per saldare testa e croce sui tubi che servivano per la trivellazione. Questo ingegnere negli anni ’70 è andato in America e ha ricercato questa macchina che gli americani avevano già fermato quindici anni prima perché avevano scoperto che la macchina uccideva. Ha comprato la macchina, l’ha portata a Sesto San Giovanni per la Breda Fucine e l’ha messa in opera. Io non credo, non penso che gli americani non abbiano detto niente; sta di fatto che la macchina ha cominciato a funzionare. Durante questo processo c’erano le vibrazioni da radioattività, il calore che faceva spruzzare metallo fuso in modo tale che doveva essere fatta in un padiglione come un baule chiuso coperto di uno strato di tre centimetri di amianto che veniva micronizzato, polverizzato. Si facevano circa 240 saldature al giorno. Ogni volta che c’era una saldatura si apriva la macchina, con la pistola ad aria compressa si soffiava per fare pulizia dove si andavano a posizionare i pezzi per la saldatura successiva. Questa polvere di amianto polverizzato viaggiava per tutto lo stabilimento. Siccome non esistevano aspiratori per trattenere questa polvere noi operai fungevamo da aspiratori. (dall'intervista a Silvestro Capelli)

Tratto da "I diari del camioncino. Il viaggio dei Tetes de Bois nell'Italia del lavoro" a cura di Timisoara Pinto (ilmanifesto, 2008)

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sabato 4 ottobre 2014

Le Resistenze: Enzo Del Re


(Pubblicato sulla rivista del Club Tenco, "Il Cantautore")




Il musicista è l’operaio, il pubblico è il padrone. L’operaio deve resistere un minuto in più del padrone. Ecco il mondo del lavoro musicale secondo Enzo Del Re ed ecco perché i suoi concerti dovevano durare 8 ore, o comunque il tempo che ci voleva per svuotare la sala e costringere alla resa l’ultimo spettatore. Questa idea di resistenza applicata ha alimentato da subito un certo alone mitologico intorno alla figura di Enzo Del Re, “il corpofonista”, un artista difficile da accettare, ma anche da dimenticare. Una incontaminata unicità, un assoluto inalterabile che per Giovanna Marini “lo salva dall’angoscia che proviamo noi tutti nell’assistere al crollo di molti ideali e alla decadenza della civiltà”.

Enzo, “l’ultimo cantastorie di Mola di Bari”, viaggiava a piedi con due valigie cariche di giornali e non buttava via niente, “perché la carta e la scrittura sono sacre”. “Mi ha sempre fatto pensare a Woody Guthrie, - mi ha detto Sandro Portelli –, non tanto per riferimenti diretti o somiglianze quanto per l’irriducibilità di entrambi agli schemi non solo della cultura dominante, ma anche della cultura alternativa”.
Resistente nella sua ostinazione e nella coerenza estrema, fino al suo ultimo concerto per grandine e cofani d’automobile, quando una tempesta inaudita ha accompagnato l’uscita del suo feretro dalla chiesa il giorno del suo funerale e, sempre contro la sua volontà, un tragitto in macchina e non a spalla lo ha condotto al camposanto. A sessantasette anni, solo il suo corpo non ha resistito, logorato da turni e ritmi serrati di emodialisi. Era il 6 giugno 2011, quando la sua sedia ha accolto il suo ultimo respiro. Pochi mesi prima, già molto indebolito, aveva finalmente sfidato il tempio della canzone d’autore, il Club Tenco. In quell’occasione, proprio in omaggio alla sua memorabile resistenza, annunciammo insieme l’uscita della sua biografia e proprio qui, a Sanremo, la presento, per la prima volta.


E’ resistenza la rivolta della gatta nera che sanguina per le ingiurie e l’ignoranza della gente che la scaccia a bastonate urlando “Scitt’rà”; è resistenza la rivolta contadina che nella canzone “Le pietre” progetta la più spontanea delle rivoluzioni: “non si deve legare più il ciuccio dove vuole il padrone”. E’ resistenza il viaggio della speranza di “Povera gente”, il dramma dell’emigrazione, “quando la cantava – ricorda Marco Chiavistrelli – il suo sguardo da dolce ed empatico diveniva vitreo, architettonico, di un popolo intero, da ruscello diveniva fiume che chiedeva il rivoltamento della storia.”


E’ resistenza il suo vivere e cantare “sempre fuori dal motore”, resistente il navigante con la bocca amara e il cuore nero che versa lacrime per il “bene suo” (la donna che lo attende a casa) cantando con “la schiuma alla bocca”, ma nessuno lo sente...

Era fiero, col suo "scazzettino" rosso in testa, quando mi parlava del carattere duro e testardo della sua gente, donne in prima linea. Persino alla resistenza molese contro Turchi e corsari aveva dedicato parole e schiocchi di lingua: "Le molesi capatosta": Fu verso la fine del 1500/ da mare arrivò l'equipaggio aggressore turco violento…/ Ogni molese lottò da valoroso si comportò, però le donne della resistenza/ furono l'anima, l'essenza./ Giovani e vecchie, maritate e zitelle, bionde e brune, grasse e magre, alte e basse/ Catarinella, Florina, Rosinella,/ Veronichella, Olimpiolla e Zenzella/ Donatella, Cecchella, Nenella, Porziella,/ quel giorno anche chi era racchia pareva bella."


(Il libro "Lavorare con lentezza. Enzo Del Re, il corpofonista" è disponibile sul sito dell'editore www.squilibri.it con il 30% di sconto)


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martedì 30 settembre 2014

Cristina Donà, la madonnina con la chitarra

(Intervista con Cristina Donà, gennaio 2011, a proposito del disco "Torno a casa a piedi").





Un nido tra l'azzurro e le montagne, la banda passa nella Fiera dei miracoli, un omino percorre 20 chilometri al giorno solo per cantare e la musica riaffiora (ed ora che esce il nuovo disco, riaffiora anche questa intervista).



Tornando a casa, alle origini della tua musica, cos’è cambiato da allora, quando pensavi e lavoravi al primo disco?
Quando ho cominciato arrivavano prima i testi, mentre la voce e tutto il resto passavano in secondo piano. Ora sono diventata un’ascoltatrice più attenta e non è un caso che in questo disco gli arrangiamenti siano più complessi. Sarà per quest’aria pesante che si respira, ma la mia ambizione come musicista è di portare più luce e leggerezza in quello che scrivo. A livello energetico cerco qualcosa che mi dia la carica ed evito tutto quello che rischia di appesantire. Non so se posso metterlo a pieno titolo nella casella dei cambiamenti, ma questo è il mio modo di vivere la musica adesso. Quest’apertura in parte la devo a Saverio Lanza, musicista e arrangiatore bravissimo con il quale ho anche condiviso la scrittura di alcuni brani. Avevo bisogno di dare una nuova veste sonora  al mio modo di fare musica e Saverio mi ha svelato un mondo di colori e sfumature a livello armonico sia negli arrangiamenti che negli strumenti usati.


Cos’è che appesantisce?
Non sopporto l’autocompiacimento nel portare avanti un discorso distruttivo, come quelli che nelle canzoni si piangono addosso. Non dipende da quello che scrivi, ma dalla sincerità con cui lo fai e l’energia che ci metti.  Per piacermi, la canzone deve arrivarmi con un’espressività forte. Al contrario, mi appesantisce la musica che è fatta solo con le tabelline, il ritornello qua e la strofa là, canzoni inutili per le mie orecchie. Quella musica mi ha sempre annoiato a morte.

E cos’è cambiato intorno alla musica?
Innanzitutto il modo di fruirla, oggi ci sono gli mp3 e quando ho iniziato c’erano i vinili, ma con questo non voglio fare la nostalgica. Dico che probabilmente questo influisce sul mio modo di scrivere, attraverso la ricerca di un linguaggio che possa arrivare immediatamente, senza dire cose scontate o banali.

Puoi parlarmi ancora di questo “feeling energetico”?
Un esempio di energia positiva è l’ultimo singolo dei Verdena. Ammiro molto chi sa affrontare il tema della leggerezza con profondità e loro sono credibili, molto espressivi. Mi viene in mente anche Joan As Police Woman, un’artista straniera che amo molto e che aderisce perfettamente al mio modello ideale, la sua malinconia mi arriva con potenza.

Questo passare da un inizio di stampo decisamente rock all’ampliamento dell’orizzonte melodico è per molti una svolta radicale. Intanto definiamo cos’è rock.
Il rock è un’attitudine. Inizialmente era chitarra distorta, basso potente e un’altrettanto potente batteria. Adesso per  me è energia allo stato puro che continua ad esprimersi nel live più che nel disco, è qualcosa da gustare in presa diretta. La parola rock è sicuramente ancora legata ad una tipologia di strumenti, ma anche la semplicità di chitarra acustica e voce può essere rock. Direi allora che se si lega agli istinti primordiali e alla prepotenza di un’energia che non viene incanalata o imbrigliata, qualsiasi musica può essere rock. Certo, cambiando si rischia di perdere qualcuno per strada, ma l’arricchimento che ne traggo lo metto tra le priorità.


Anche il tuo approccio vocale non è più lo stesso?
Pur riconoscendo quell’ingenuità che ti fa tirar fuori cose che non torneranno più, rispetto agli esordi ho fatto una ricerca di cui posso ritenermi soddisfatta. Ho iniziato musicando i miei versi, priva di grandi idee melodiche perché mi mancava proprio quel tipo di ispirazione, non mi interessava. Piuttosto, cantavo dei testi intonandoli su una, due note. Sai, quando fai parte di un circuito underground lo spirito è quello di andare contro la tradizione, vorresti scardinare tutto, ricodificare. Poi col tempo e suonando sempre di più, ho sentito l’esigenza di trovare una melodia vocale, di far cantare la mia voce. Un desiderio di andare verso la melodia che è nato, a dire il vero, già col mio secondo album, “Nido”. Ora voglio dare sempre di più alla musica la possibilità di ispirarmi un testo, quando sono le note a suggerirti alcune parole e non altre. Ho scoperto che abbiamo dei maestri come Battisti, Fossati, Conte, con cui sono cresciuta, ma anche Battiato che ha unito testi surreali a delle melodie molto forti. Insomma, sono tornata all’ovile, forse per una questione di orgoglio patriottico.


Giusto in tempo per i 150 anni dell’Unità d’Italia…
Amo questo paese, non fa tutto schifo. Se voglio esportare qualcosa di mio, voglio che sia italiano. Forse è anche una questione anagrafica: ho 43 anni e prima il mio modo di fare musica era anche espressione dei miei gusti e degli ascolti legati ad un’altra età.
Nei nuovi brani possiamo rintracciare delle influenze dirette dei “padri” che hai nominato prima?
Avevo sicuramente in testa il mondo delle sigle importanti della televisione degli anni Settanta che io conservo come patrimonio genetico, quando la musica in televisione non era affatto una cosa leggera, ma era scritta e arrangiata da maestri con i fiocchi. Penso ad alcune orchestrazioni di “Un esercito di alberi” e “Torno a casa piedi”. Invece, fin dalle prime note, “Miracoli”, che poi è diventata il singolo per le radio, mi aveva fatto venire in mente che poteva essere arrangiata un po’ con lo spirito bandistico di brani come “La banda” di Mina o “Ma che musica maestro” cantata da Raffaella Carrà. Invece, “In un soffio”, come atmosfera e come portamento un po’ in levare, mi ha fatto subito pensare ad “Azzurro” di Paolo Conte.


Con la canzone  “Giapponese” hai fotografato un ritmo e uno stile di vita molto precisi.
E’ un brano nato da diversi input e questa schizofrenia è entrata nella canzone. Lo stesso disorientamento lo vivo nel quotidiano, nell’attesa e nel frastuono legato al traffico e al consumismo. Giapponese è il personaggio che incarno quando mi introduco nei centri commerciali, quando riprendo a frequentare la città. Vivendo ormai fuori da vent’anni, in un piccolo paese di montagna, l’impatto con i suoi ritmi è sempre forte. Tante cose della città mi piacciono, non sono una che la rinnega e continuo ad andarci tutte le settimane, ma è difficile viverla, non solo per le questioni legate all’inquinamento e al modo di fare di noi comuni mortali, ma a causa di chi le gestisce queste città. Milano potrebbe essere molto più bella, non è da demonizzare, il problema è che non è gestita bene. Insomma,  volevo che il messaggio arrivasse anche in modo scanzonato, una conversazione ipotetica con un’amica con la quale ti confronti e cerchi di capire come gestire le distanze che in città ti mettono sempre a dura prova, il traffico, il parcheggio, e tutto il resto. Non avevo raccontato mai questo mio aspetto urbano e questo brano mi ha dato la possibilità di farlo. Poi c’è un motivo strettamente legato alla parola “giapponese” che mi consentiva di descrivere questa velocità, perché nel mio immaginario le metropoli giapponesi sono quelle che hanno i tempi più frenetici. La prima approvazione è arrivata da mio figlio Leonardo di 5 mesi e lui, ogni volta che gli sussurravo giapponese, si faceva le sue prime grandi risate. Così, un po’ per scherzo, quando ho mandato il provino a Saverio Lanza,  ho messo dentro questa cosa del giapponese, confidando che potesse essere un’idea forte alla base della canzone…. Nell’arrangiamento, Saverio ha sottolineato questa successione di tanti input che poi convergono in una musica più lineare, nonostante ci siano degli archi un po’ schizzati, dei pianoforti che non sono proprio ortodossi. Questo la rende una delle mie preferite dell’album e piace tantissimo ai bambini, segno inequivocabile di qualcosa che funziona.

Quindi la città del centro commerciale non è il tuo ideale…
Non è il mio luogo ideale ma si possono trovare degli spunti interessanti. Se ho una giornata libera non vado al centro commerciale, però mi diverto ad osservare e mi chiedo come si possa passare la domenica pomeriggio in un luogo così. Tanti lo fanno perché è diventato la piazza-mercato di una volta, ma è alienante. E soprattutto è preoccupante il fatto che si trovi sempre qualcosa da comprare, perché se finisci lì dentro, non esci mai a mani vuote.

“Tutti sanno cosa dire”, invece, a chi è dedicata?
C’è sicuramente il riferimento alla persona che stimo e ammiro di più, mio marito Davide, con cui ho condiviso gran parte della mia vita. E’ per me l’esempio di chi fa le cose con una certa coerenza. Ma non c’è solo lui, ci sono tante persone che portano avanti un discorso di credibilità e autorevolezza in quello che fanno e sono in qualche modo sommersi, penalizzati in una società in cui, invece, vince sempre chi fa finta di avere le idee più chiare e chi urla di più. Il modello televisivo purtroppo la fa da padrone, in tv vediamo un’ostentazione di sicurezza su tutti gli argomenti, soprattutto in politica. L’invito a mettersi in discussione, che è una pratica secondo me tanto importante per gli esseri umani, non viene mai in mente a nessuno. Dal mio canto, ammiro molto chi approfondisce, chi sa appunto anche mettersi in discussione, così ho voluto raccontare a mio modo il disagio nei confronti di questa prepotenza che non condivido. Un inquinamento mentale, una pratica nociva che, a mio modo di vedere, si aggiunge a tante altre.

In “Miracoli” ci sono due citazioni,  una a proposito di un film di David Lynch, l’altra riguarda la poetessa polacca premio Nobel, Wiesława Szymborska. Ce ne parli?
Sono una lettrice disordinatissima però ho dei punti di riferimenti che per me sono intoccabili. Tra questi c’è  la Szymborska e una sua poesia in particolare, “La fiera dei miracoli”. Si vede che ha seminato così bene il suo verbo che quando ha germogliato ha sicuramente partecipato al testo della canzone. L’ altra influenza riguarda Lynch. Amo da sempre le sue atmosfere, i suoi film più lirici, lo stesso Twin Peaks… credo che Lynch abbia davvero creato un linguaggio nuovo. Tuttavia il film che ha ispirato la frase che apre la canzone è “Una storia vera”, il meno astratto e sognante, proprio perché basato, come dice il titolo, su un fatto realmente accaduto. Alla fine della visione avevo preso degli appunti, forse perché con l’andare avanti nella vita ti confronti con tutta una serie di eventi tristi e dolorosi che inevitabilmente ti spingono a raccontare. A proposito di come si è trasformato il mio modo di vivere la musica, ecco ora posso dire che ho cominciato a cantare le cose che mi commuovono, che non devono essere per forza presentate con pesantezza. Alla fine di quella storia ho desiderato sottolineare il gesto di quel pensionato di 73 anni che percorre centinaia di chilometri su un lentissimo trattore tosaerba perché era l’unico mezzo che aveva per andare a trovare il fratello malato. Così tutto quello che viene mosso dall’amore, da qualcosa di spontaneo tra gli esseri umani e che crea gesti straordinari per me è degno di nota in un momento in cui invece si sottolineano solo le brutture e le storture insite nel mondo e nelle persone.

Sta per uscire, per Galaad edizioni, la tua biografia “Parlami dell’universo. Storia di un viaggio in musica” di Michele Monina. Immagino che nel libro avrai dato ampio spazio a questa nuova voglia di raccontare, puoi anticiparci qualcosa?
Innanzitutto, questa voglia di raccontare sta posticipando l’uscita del libro. Ogni giorno me ne viene in mente una, ma niente di eclatante. Con Michele ridevamo proprio del fatto che non ho avuto una vita da rockstar e non posso raccontare di quella volta che sono rientrata in albergo a New York barcollando perché ero ubriaca, però in compenso ho tante cose archiviate sulla scena milanese degli anni ‘90, dove ho mosso i primi passi, grazie a quei musicisti che hanno fatto la storia di quel periodo. Ci sarà l’io narratore di Monina  e tante finestre aperte da me sia sui testi, che sono la parte fondamentale, sia sulla genesi di quella scena musicale, quindi la mia frequentazione con Manuel degli Afterhours e Jo dei La Crus, il ruolo dell’etichetta dei miei primi dischi, la Mescal, che ha avuto veramente a che fare con musicisti e gruppi che hanno reimpostato la musica leggera in Italia. Spesso si nomina Manuel Agnelli perché è stato il mio produttore, ma devo molto anche a mio marito, che ha fatto parte della critica musicale per anni. Lui mi ha presentato Manuel e gli ha proposto di farmi aprire un suo concerto nel 91. Poi i La Crus mi hanno portato in tour con loro per un paio di anni e mi hanno presentato alla Mescal. Sono felice che dopo gli Afterhours, quest’anno sia toccato a loro di andare a Sanremo. Forse, uno alla volta, riusciremo tutti a calcare quel palco.

E perché l’avventura con la Mescal è finita?
Ad un certo punto la Mescal ha venduto il suo catalogo alla Emi, non so se per problemi finanziari o se erano semplicemente stufi di seguire tutto. Non ho mai parlato di questo con Valerio Soave, il capo Mescal, purtroppo non abbiamo più alcun rapporto, perché abbiamo chiuso un po’ bruscamente… Sta di fatto che dall’episodio di rottura con i Subsonica qualcosa si è incrinato, anche il mercato si è ristretto e un’etichetta piccola ha sicuramente maggiori difficoltà a sopravvivere. La Emi ha comprato il catalogo della Mescal, Afterhours e Perturbazione hanno fatto qualcosa e poi se ne sono andati, io ho fatto i miei due album da contratto e adesso vedremo. Però il passaggio è avvenuto con l’appoggio della Mescal, il problema per me è nato su un’incomprensione, un’insoddisfazione rispetto al live che era comunque gestito da una persona collegata all’etichetta.  Non ero più contenta, ho voluto trovare un’alternativa e non ci siamo capiti.

Ci racconti un aneddoto sul tuo incontro con il carismatico Robert Wyatt?
Ci siamo conosciuti nel ’97 al Salone della musica di Torino, complice ancora una volta Davide che all’epoca lavorava per la promozione dei dischi di Wyatt. Era appena uscito il suo cd “Shleep”, un titolo curioso, ma Wyatt in quel periodo era particolarmente insonne e da amante dei giochi di parole, aveva inventato questo incrocio tra sheep e sleep, pecora e sonno. Mi è sembrato da subito una persona molto profonda e attenta a quello che fanno gli altri artisti. Quella sera l’ho invitato al mio concerto. Il suo albergo era all’interno del Salone e così, nonostante la sedia a rotelle, è venuto a sentirmi. Successivamente ha parlato bene di me e nella votazione su Mojo dei dischi del ‘97 il mio era citato tra quelli che gli erano piaciuti di più. Allora ho pensato di coinvolgerlo nella lavorazione dei miei nuovi brani e due anni dopo è nata “Goccia” in cui Robert suona la cornetta e aggiunge suoni con la sua voce.

Qualche anno fa, sempre con Michele Monina,  hai scritto un libro seguendo le tracce musicali dell’America di Springsteen. Quale itinerario sceglieresti per un ideale viaggio in Italia?
Partirei dalla Sicilia e dall’influenza del Mediterraneo, di quelle musiche arrivate dai paesi arabi e poi salirei passando attraverso la Puglia di Modugno, cercherei di studiare quello che c’è stato prima, la miscellanea che si è venuta a creare con l’arrivo degli americani e con l’impatto che la musica anglosassone ha avuto su di noi. Andrei alla ricerca delle mie origini tra Veneto e Lombardia. Sarebbe un libro molto difficile,  mi servirebbero due anni di tour.

Insomma, tutto ci riconduce al titolo che hai scelto per il tuo nuovo disco: Torno a casa a piedi. 
Già, tutto torna... Un primo simbolo forte è l’inizio di “Miracoli”, la canzone che apre il disco. Se ci fai caso, ci sono io che do il tempo e conto fino a 4, mentre di solito si conta all’inglese, one-two-three-four.

Si può quindi dire che è il tuo album più italiano?
Sì e ne vado fiera.

Questo tornare a casa a piedi potrebbe tradursi anche musicalmente in un disco sulle tue origini?
Sicuramente mi trovo in quel momento della vita in cui si ha voglia di fare un bell’albero genealogico. Quando sei adolescente, se non vedi i tuoi parenti diciamo che non ti dispiace, poi arriva il giorno in cui vuoi saperne di più su di te, attraverso il tuo dna familiare e culturale, e cerchi di riappropriartene. Ad esempio c’è una storia bellissima che riguarda il fratello di mio nonno, che ora non c’è più, che cantava nel coro di Adria e questo ragazzo, dopo il lavoro ad Ariano Polesine, in provincia di Rovigo, andava ad Adria a piedi a fare le prove, 10 chilometri all’andata, 10 al ritorno. Erano talmente poveri che le biciclette sono arrivate dopo.

Non ci sfornerai qualcosa in dialetto?
Con i dialetti sono un disastro, non ne parlo neanche uno, ma se vado avanti di questo passo ci sarà anche un disco in dialetto. Ogni tanto mi butto con Ginevra Di Marco e il suo tour di Stazioni Lunari, ma il bergamasco lo escludo perché è molto lontano da me nonostante io viva qua da sempre, tra Rho e la provincia di Bergamo, in Valseriana, un luogo che prende il nome dal fiume Serio. Non mi sento a mio agio nel bergamasco, quello dei miei genitori, un incrocio tra il rovigotto e il ferrarese lo capisco, ma se lo parlo mi sento ridicola e comunque lo approfondirò. Non saprei quale scegliere, forse il milanese, o i dialetti che mi fanno simpatia, come il toscano e l’emiliano.

Cosa canti in concerto con Ginevra Di Marco?
Ultimamente ho proposto  “I miei sogni d’amore”, un brano di Gabriella Ferri che tra i nomi del varietà degli anni  ‘70 è un personaggio che amo alla follia. Da quando ho scoperto che era anche autrice di molti di quei brani che cantava, mi è venuta voglia di approfondire. Tra i brani in dialetto dove cerco di interagire ma soltanto con le armonizzazioni, senza esagerare, c’è un tradizionale siciliano dal titolo “Amuri”. E poi “Malarazza” di Modugno dove tento di cantare questo strano dialetto che mi intriga. Forse dovrei crederci solo un po’ di più.



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foto di Timisoara Pinto (King Kong, Radio1, 29 settembre 2014)


giovedì 18 settembre 2014

Lavorare con lentezza. Enzo Del Re, il corpofonista



Timisoara Pinto
LAVORARE CON LENTEZZA
ENZO DEL RE, IL CORPOFONISTA


2014, € 25
Formato 14x19, 48 foto in b/n e a colori, pp. 304

In uscita il 29 settembre, acquistalo ora Sul sito dell'editore SQUILIBRI  con il 30% di sconto, a 17,50 € invece di 25 €

Cantastorie e corpofonista, Enzo Del Re è stato l’interprete più autentico di una stagione di impegno civile nella quale le canzoni di lotta e di protesta animavano il sogno di una società diversa. Con uno stile e un linguaggio inconfondibili, schioccando la lingua e percuotendo sedie e valigie o qualsiasi altro oggetto che potesse ritmare la sua urgenza di vita, è stato protagonista di memorabili esperienze culturali e teatrali, da Ci ragiono e canto 2 agli spettacoli con Nuova Scena, il Teatro Operaio e i Circoli Ottobre, per poi eclissarsi nella sua Mola di Bari, mentre il movimento del '77 eleggeva a proprio inno una sua canzone, Lavorare con lentezza. 

Dalla viva voce di quanti lo hanno conosciuto e amato, da Dario Fo a Giovanna Marini, da Antonio Infantino a Vinicio Capossela, da Paolo Ciarchi a Andrea Satta, da Vittorio Franceschi a Piero Nissim, il volume, con un significativo corredo fotografico, ricostruisce la vicenda umana e artistica di un autore così iconograficamente arcaico, eppure straordinariamente contemporaneo, da rappresentare, con i ritmi della sua lingua e della sua sedia, un anticipatore e un archetipo per tanta cultura musicale giovanile di oggi, come il rap e la techno.

Nel primo dei CD allegati al volume, una scelta antologica del repertorio di una voce irriducibilmente contro, mentre nel secondo CD un tributo alla sua memoria da parte di numerosi artisti che, da Vinicio Capossela a Teresa De Sio, da Antonio Infantino alle Faraualla, da Alessio Lega ai Radicanto, dai Têtes de Bois a Tonino Zurlo, hanno rivisitato alcuni dei suoi brani.



... e presto su questo blog anche tanti contenuti extra...


giovedì 22 maggio 2014

Aznavour, 90 anni da istrione


Ci ho pensato un po’, ma proprio non mi viene in mente un altro novantenne ancora in tournée, uno che questa sera deve sgolarsi a Berlino e risparmiare pure un po’ di fiato per soffiare, immagino in camerino, sulla sua scintillante torta di “buon anniversario”.
Oggi Charles Aznavour compie 90 anni. Praticamente una miccia.
L'artista franco-armeno sabato sarà a Francoforte, il 1 giugno a Londra, il 26 a Barcellona e poi, il 1 luglio a Roma, al Centrale del Foro italico, per l’unica data italiana di questo compleanno da record.
Un altro infaticabile, Nicola Di Bari, che per molti aspetti potrebbe essere l’Aznavour italiano, ha appena 74 anni. Paolo Conte, 77, Gino Paoli va per gli 80.
In un’intervista radiofonica della fine degli anni ’60, quando per il pubblico dei giovani capelloni Aznavour era incasellato nella categoria dei “matusa”, il piccolo grande Charles rispose: «“matusa” è un uomo che ha accettato di invecchiare prematuramente. Si diventa “matusa” cercando di scimmiottare i giovani, il segreto è conservare la propria età con una grossa carica di energia».

Il debutto a 9 anni, la svolta nel 1946, grazie all’incontro con Edith Piaf, che affettuosamente lo definiva “il mio genietto balordo”. Di quella riva benedetta, parigina, creativa e poetica, Aznavour è rimasto il solo, tutti i suoi compagni di viaggio sono scomparsi da anni. Sicuramente anche questo contribuisce ad alimentare il fascino e l’attesa di ogni sua esibizione. In Francia è da poco uscita la sua terza biografia “Tant que battra mon coeu”, dopo quelle del 1974 e del 2004, tante come le sue vite, ma è inutile andare a cercare lì grandi rivelazioni sul suo passato. Aznavour aveva un tritacarte micidiale, che utilizzava come macchinetta per sminuzzare e polverizzare i ricordi, per sbarazzarsi di carte, biglietti, telegrammi e chissà di quanti altri documenti utili oggi per ricostruire anche una piccola parte di storia della canzone francese.
E’ appassionato e grande ballerino di valzer, tango e paso doble, ma il suo più grande vanto è di riuscire ancora a leggere senza occhiali. Condensa in questa frase il suo elisir «fai della tua vita un'avventura, sorprendi gli uomini e le donne intorno a te, con umiltà, gentilezza, semplicità».

Malgrado si circondi di band non sempre all'altezza, il repertorio zampilla con l’audacia del più classico romanticismo: «Charles, tu canti l'amore come mai è stato cantato fino ad oggi – gli disse una volta Maurice Chevalier. Con un vocabolario che è quello stesso dei gesti fisici dell'amore. Sei il primo dei cantanti di tutti i tempi ad osar cantare l'amore come lo senti, come lo fai, come lo soffri». La nuova autobiografia pubblicata in Francia dall’editore Don Quichotte non è ancora arrivata da noi, ma con ogni probabilità rispetterà il titolo originale “Tanto da far battere il mio cuore”. Del nostro Paese le uniche cose che scrive nel precedente libro (dato alle stampe in occasione degli 80 anni) sono il ricordo di un bacio in camerino di Gina Lollobrigida accompagnata da Glenn Ford e l’amicizia con Caterina Valente, grandissima artista, ahinoi lontana da anni dai riflettori...
In passato, Aznavour aveva annunciato più volte il ritiro dalle scene: nel 1999, nel 2000, nel 2006, ma il suo sodale avvocato-produttore deve avergli fatto cambiare idea ogni volta, tanto che oggi il grande istrione arriva a dire: “diventerò centenario e canterò ancora". Tra pochi mesi, intanto, saranno cento gli anni trascorsi dal genocidio armeno, una causa che ha visto Shahnour Vaghinagh Aznavourian (il suo nome all’anagrafe) sempre in prima linea. Per quell’anniversario, Charles intonerà le sue canzoni più tristi.









domenica 6 aprile 2014

L’ultima fetta di torta

(da un mio piccolo format radiofonico del 2009
Ospite: Francesco Di Giacomo)


T: Saluto Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso. Una voce autorevole anche in cucina.

F: Ho solo fatto di necessità virtù. Quando ero ragazzetto mia madre lavorava molto e così mi ha impartito subito alcune istruzioni per cavarmela da solo anche tra i fornelli. Pian piano mi sono appassionato e sì, lo ammetto, mi sono sempre divertito molto a stare dove si cucina…

T: Un piatto della tua infanzia, un sapore impresso nella tua memoria che non hai più potuto gustare..

F: Sono nato in Sardegna, a cinquanta metri dal mare e il pesce era sempre in tavola. La cosa che, però, ricordo con più piacere è la crema... Ora ti spiego. Mio padre era l’amministratore di una grande tenuta del conte Dufour, quello delle caramelle. Ogni tanto si organizzavano delle battute al cinghiale e mia madre dava disposizioni al personale per la preparazione del pranzo e del buffet di dolci.
Noi bambini aspettavamo il nostro turno, quando mamma ci chiamava in cucina per ripulire il tegame della crema pasticcera. Ecco, quel sapore lì, di quel tegamone che sembrava un pozzo agli occhi di un bambino, è irraggiungibile come gusto ed è naturale che sia così.

T: Quando ti sei trasferito a Roma?

F: Nel 1952, all’età di cinque anni, secoli fa…

T: Qual è la ricetta che hai scelto per la radio?

F: Ne avrei tante da suggerire, ma te ne dico una estremamente veloce. Un piatto di orecchiette. Mettiamo sul fondo l’olio, il pomodoro e un po’ di aglio da togliere subito, da imbiondire appena, aggiungiamo formaggio di fossa e della rughetta fresca. Il tutto si amalgama e diventa un piatto principe, eccellente. La rughetta non deve cuocere, dev’essere fresca, buttata lì...

T: Ultimamente è un po’ di moda, ma è un sapore contadino molto antico.

F: Io ho la rughetta nel prato davanti casa mia e c’è un’enorme differenza tra quella che compri e la rucola selvatica. La mia è molto più aggressiva, avviluppante, è un abbraccio forte la rughetta di campo. E’ aspra, ha un sapore più alto. Fondamentale è il formaggio di fossa, dopo averlo fuso con il pomodoro, ne lasci cadere un un po’ a scaglie su tutto il piatto. 


T: Francesco Di Giacomo, voce del Banco del Mutuo Soccorso…

F: Anche “panza” del Banco.

T: Allora voce, panza e… parannanza del Banco. La vostra canzone più legata al cibo?

F: Non c’è una canzone vera e propria del Banco legata al cibo.. mi sembra di no, anche se poi spesso tutte partono dall’osservazione del cibo. Io ho scritto un brano mio, che non ha niente a che vedere col Banco, ma che parla di cibo e dice: “Tu sei piena di rischi e di attesa come l’ultima fetta di torta”. L’ultima fetta è quella che rischia di più, perché tutti la guardano, sono tante le mani, ma lei è sola in mezzo al piatto. Ho voluto fare una similitudine con questa ragazza che vuole proprio starsene per conto suo.

T: E tu la cedi a qualcun altro o provi a conquistarla?

F: E’ lei che decide, piena di rischi e di attesa come l’ultima fetta di torta...

T: L’hai già incisa questa canzone?

F: L’ho registrata per me, per farne un provino.

T: Un brindisi per salutarci?

F: Faccio un brindisi a tutti gli uomini e le donne che si alzano la mattina presto, che accompagnano i figli, che lavorano nonostante tutto, che attraversano la città, che affrontano l’imbecillità di tutti, me compreso, e brindo alla fine della loro pazienza.

T: Grazie Francesco, per la tua ricetta, i tuoi sogni d’infanzia e le tue canzoni.



© Riproduzione riservata
Le foto di questa pagina sono di Paolo Soriani 



lunedì 3 marzo 2014

Galleria delle Armi, 1944-2014
L'assurda tragedia ferroviaria di Balvano

Galleria delle Armi
E’ la lucanologa che vi parla questa notte. Una notte di ferro, di acido e di veleno. Un fiume, un ponte, una trappola nella roccia e intorno buio e silenzio. Troppo silenzio e per troppo a lungo. Solo la certezza di un telegrafo che cinguetta il suo messaggio lampo: “treno partito da Balvano ore 00.50”.
E’ il 3 marzo del 1944 e, a meno di due chilometri dalla stazione del piccolo comune della Basilicata, in una zona nota ai pastori come Contrada Grotta Palomba, si consuma la più grande tragedia ferroviaria della storia. 

Il treno 8017 avrebbe dovuto percorrere altri sei chilometri per raggiungere la fermata successiva, “Bella-Muro” (dai nomi dei due comuni serviti dalla stessa stazione, Bella e Muro Lucano), ma resta intrappolato in una delle trentasette gallerie della linea Battipaglia-Potenza, la numero 20, la più lunga del percorso, poco meno di due chilometri, dal nome tristemente glorioso, “Galleria delle Armi”.
Per l’effetto combinato di monossido di carbonio, biossido di carbonio e carenza d’ossigeno, muoiono nel sonno o nella veglia, oltre 600 persone.
Il primo macchinista, Espedito Senatore
Tutto, in questa tragedia, rimanda ad un immaginario mitico di eroi misconosciuti che popolano una terra che commuove, ma ancora sfugge alla storiografia ufficiale. A partire dal primo macchinista, Espedito Senatore, vero uomo-treno, una immedesimazione pressoché assoluta con la propria locomotiva, la macchina pulsante, mito di progresso di Gucciniana memoria.
All’alba del 3 marzo, Espedito fu ritrovato al suo posto di comando, con il regolatore aperto, nel suo estremo tentativo di chiedere alla macchina il massimo sforzo. Aveva fatto appena in tempo a spingere Luigi Ronga, il suo fuochista, giù dal predellino, dicendogli di mettersi in salvo. Quando arrivarono i primi soccorsi, molte ore dopo, Ronga se ne stava accucciato e tramortito in una cunetta dove un miracoloso rigagnolo di acqua gli aveva salvato la vita. 

Dire, come concluse l’analisi tecnica, che l’incidente fu causato dall’arresto del treno nel tunnel, è come il referto del medico quando parla di morte provocata da arresto cardiaco.
Le cause di questa terribile sciagura ignorata e rimossa, finita nel grande calderone di una guerra da cancellare al più presto, “tecnicamente” sono molteplici.
La Galleria delle Armi, umida, buia e scarsamente ventilata, è scavata sulla sagoma di un treno e lo avvolge come fa il fodero con la sua scimitarra. Tra le pareti della locomotiva e quelle delle galleria lo spazio di pochi centimetri.
La lunghezza eccezionale del convoglio, 479,30 metri, che finisce la sua lenta processione a un chilometro e mezzo dall’uscita del tunnel, arrendendosi per carico, massa trainata e pendenza del 14 per mille.
Uomini in servizio da molte ore, con la loro dose di gas tossici già incamerata nelle gallerie precedenti a causa della pessima qualità del carbone fornito dagli alleati, con resa termica di gran lunga inferiore rispetto a quello di provenienza tedesca, utilizzato fino al settembre del 1943.
Il peso delle merci trasportate e dell’elevato numero di persone salite a bordo, “più o meno regolarmente”, avrebbero dovuto imporre un diverso posizionamento delle due locomotive che, invece, viaggiavano accoppiate alla testa del treno 8017, esercitando la trazione in maniera sbilanciata.

Di fronte all’impossibilità di marciare in avanti, Espedito Senatore decise di retrocedere perché più vicino all’imbocco sud della Galleria. Il macchinista della seconda locomotiva, Matteo Gigliano, ritenne invece che c’era bisogno di un’ulteriore spinta. Il colpo di grazia lo diedero i frenatori, attenendosi all’articolo 12 comma 3, dell’ “Istruzione per il servizio del personale di scorta ai treni” che recita i “doveri circa l’uso dei freni”.
Sempre per l’obnubilamento generale e la paura che, arretrando, il treno potesse acquisire velocità, perdere aderenza e finire fuori controllo, i frenatori non sospettarono minimamente che la retromarcia fosse un atto intenzionale, nonché l’unica fuga possibile. Inchiodarono così, per sempre, il loro destino a quei binari.

Come se non bastasse, mentre la 480, costruita in Italia, aveva la guida a sinistra, la seconda locomotiva, la 476, era di fabbricazione austriaca, con il macchinista sul lato destro. Visibilità zero e possibilità di lanciarsi dei segnali non contemplata.
Nella Galleria delle Armi, trasformatasi in una camera a gas, nessuno fu in grado di esercitare le sue funzioni ed Espedito e Matteo, svolsero l’ultimo eroico servizio della loro vita, sui finestrini opposti del treno, senza la possibilità di comunicare.

Nelle stazioni tutto tace e i responsabili si addormentano al caldo, qualcuno chiude un occhio. Al “partito” telegrafato dalla stazione di Balvano non seguirà mai la risposta “giunto”. La macabra scoperta del treno e del suo carico senza vita avverrà solo con le prime luci dell’alba, mentre il carico di responsabilità giace nelle zone telegrafiche mai esaminate, vere e proprie scatole nere degli incidenti ferroviari.


Diversi giorni dopo, sul “Times” di Londra, si parla di “guasto ad un treno nel centro-sud dell’Italia”, di “Disastro a sud est di Napoli” sulla Gazzetta del Mezzogiorno. La faccenda è liquidata e archiviata sommariamente anche da chi poteva arrivarci, se non altro, per affinità geografica e territoriale. 
Pendolari della fame e della disperazione, della povertà e dall’abbandono, che dalla Campania e, in particolare, dalla provincia di Salerno tentavano, attraverso la ferrovia, di raggiungere la più felix Lucania, con le sue campagne fertili, le masserie isolate scampate al saccheggio, i maiali, i fagioli, le cicerchie, le uova, un po’ di ricotta e il grano, nell’unico baratto di sussistenza possibile, per chi a Napoli e dintorni non aveva più nulla da cercare, niente più niente da mangiare e, in cambio, poteva offrire solo un pugno di chiodi per le scarpe.
Più di una volta, il primo macchinista Espedito Senatore era dovuto intervenire a difesa dei suoi passeggeri, per evitare che le forze dell’ordine sequestrassero i generi alimentari faticosamente racimolati per sfamare i figli rimasti a casa.

Ho percorso molte volte quella tratta ferroviaria, su moderno Intercity o Regionale, e le fermate sono le stesse di quel 3 marzo di settant’anni fa: Picerno, Baragiano, Bella-Muro, Balvano-Ricigliano e poi Eboli, Battipaglia, Salerno. E’ un binario unico, da percorrere almeno una volta nella vita. Basta verificare che per la corsa prescelta, ci sia proprio il treno e non, come accade sempre più di frequente, il pullman del servizio sostitutivo.

Purtroppo, ho visto filmati giornalistici che la bollano come una delle tratte peggiori d’Italia, per lentezza, ritardi, disservizi, carenze di varia natura. Persino Legambiente, nel suo dossier “Pendolaria 2013”, la colloca al decimo posto della classifica delle linee ferroviarie più disastrate. Bastava chiamarle: linee da preservare, valorizzare, a sottolinearne fascino e potenzialità.

Oggi, in una pubblicità televisiva, parlano di Balvano come di una grande fabbrica di merendine ma, per me e per molti, Balvano è uno dei paesi lucani più colpiti dal feroce sisma dell'Irpinia (a proposito di tempismo e organizzazione dei soccorsi).
Tante le gallerie che ti catapultano in una natura altrimenti nascosta e irragiungibile, a pochi centimetri dal fiume Platano che la insegue e dalle pareti a strapiombo, imponenti e brulle, di montagne e canyon.
Solo la ricostruzione del post terremoto dell’80 è riuscita a fare danni sul percorso, non lasciando traccia delle originali costruzioni liberty a due piani, sostituite brutalmente da anonimi e desolati fabbricati senza più la dignità di “stazione”, ma declassati al rango di “fermata”.

Balvano (fermata)

Ad un certo punto, esattamente una decina di anni fa, il nome Balvano è apparso sulla copertina di un libro di un avvocato romano, Gianluca Barneschi che, a sua volta, da almeno dieci anni, dopo aver letto notizia di questa strage silenziosa su una rivista dedicata ai treni, tentava di far luce sulla notte più nera del vapore ferroviario. Barneschi parlava anche di un cantautore texano, Terry Allen, che si era appassionato alla vicenda leggendo un giornale americano, e aveva composto la ballata “Galleria delle Armi” (anzi, "Galleria dele Armi", per il classico errore di pronuncia). Ci feci subito una puntata di Radioscrigno.

Esce oggi una nuova edizione del libro, “Balvano 1944. Indagine su un disastro rimosso”, frutto di ulteriori ricerche di Barneschi negli archivi di mezzo mondo, di acquisizione di documentazione rimasta a lungo secretata, di nuove interviste ai parenti delle vittime e ai pochi sopravvissuti. Un intero capitolo è dedicato, inoltre, a un clamoroso colpo di scena. Ne parlerà direttamente l’autore, sabato 8 marzo, in occasione della presentazione del libro al Museo Provinciale di Potenza.


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