lunedì 25 novembre 2013

Amare umanum est,
perseverare autem diabolicum

Il metodo “Di Battista” per sciogliere l'“aggancio nevrotico” e uscire da una relazione quando l'amore diventa una trappola




Non è facile sganciarsi da una relazione a catena. La psicologa e psicoterapeuta Daniela Di Battista, specializzata in terapia cognitivo comportamentale, direbbe che la coppia è finita in gabbia, intrappolata. Ha dedicato due libri e oltre un ventennio di studio a un’intuizione fondamentale che ha definito, con linguaggio altrettanto sagace, “aggancio nevrotico”. Qualcosa che ha a che fare con l’”odi et amo” di catulliana memoria, tanto che il primo libro della Di Battista s’intitolava “Amore mio ti odio” (Zines edizioni). 
Si tratta di una pericolosa forma di sudditanza psicologica che logora i rapporti coniugali fino alle conseguenze più estreme e, anche se la Di Battista non ha mai parlato di connessioni tra l’aggancio nevrotico e il femminicidio, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un protocollo come questo potrebbe aprire una nuova riflessione sugli stili di relazione nelle coppie che si separano o che non riescono a farlo.
Nel suo secondo libro, “La coppia intrappolata”, edito da Springer, la Di Battista ha persino inserito un test per misurare il rischio di diventare troppo dipendente da un partner a discapito della propria autonomia e quindi probabile vittima di un aggancio nevrotico.
I campanelli d’allarme esistono, bisogna saperli riconoscere e distinguere i segnali inquietanti dalle eccentriche e puramente folkloristiche manifestazioni di personalità.
“Quante volte – spiega la Di Battista – abbiamo sentito donne lamentarsi del marito perché non considerate, trattate come bambine, a volte anche un po’ stupidine, e loro di conseguenza sentivano di non riconoscersi più, di aver perso il contatto con se stesse, di non avere più una personalità, di avere persino paura di parlare per non essere criticate. Quante volte abbiamo sentito uomini parlare di donne e lamentarsene, recriminare che dopo il matrimonio erano diventate aggressive e che non facevano altro che sminuirli e ridicolizzarli davanti ai figli, agli amici, parenti. E poi vedere negli occhi di questi individui la rassegnazione, il vivere il tutto come qualcosa di ineluttabile, e tanti potrebbero essere gli esempi”. A questo punto del racconto della Di Battista abbiamo già incasellato nella sua griglia l’amico, il parente, il conoscente. Ed è per questo che, nell’intervista, tentiamo di spiegare i segnali di una nevrosi sempre in agguato.

Il primo dato che emerge dalla tua analisi, Daniela, è che l’aggancio nevrotico può manifestarsi solo all’interno di una relazione tra due strutture di personalità ben precise. Quali?

E’ una combinazione quasi matematica che nasce dall’incontro tra un individuo con una struttura di personalità “dominante” e un individuo “succube” e non è una peculiarità di un sesso rispetto all’altro, non dipende da una scelta sessuale, né dall’età.

Definiamo l’ "aggangio nevrotico”.

E’ l’anello mancante dell’uno e dell’altro individuo. Con la parola “aggancio” sottolineo il bisogno di sentirsi legato ad un’altra persona, di avvertire un’unione con il partner. Con “nevrotico” indico un disturbo del comportamento che si verifica tutte le volte che abbiamo una lettura distorta della realtà. Quando questa lettura che non corrisponde al reale ci è propinata in maniera diretta o anche subdola, dal nostro partner che, come una specie di mantra, non fa altro che ripeterci che siamo inadeguati, inetti, fino ad instillare tutta una serie di condizionamenti per assicurarsi il predominio e tenere l’altro in uno stato di instabilità e dipendenza, abbandoniamo il nostro modo di leggere la realtà, ci aggrappiamo a quello dell’altro, la mente si aggancia nevroticamente a quello schema di realtà che non è il nostro. Siamo indotti a pensare di non essere capaci o idonei a fare qualcosa e invece lo siamo, ma non ce ne rendiamo più conto, vittime del più classico “lavaggio del cervello”.

Puoi fornirci un identikit dei due personaggi coinvolti?

Il “dominante” ha un orientamento di personalità paranoide e narcisistico. Il “succube” possiede un orientamento di personalità dipendente, autofrustrante e ossessivo-compulsivo, che non vuol dire lavarsi le mani in maniera compulsiva o ripetere sempre le stesse cose. Nel gergo che utilizziamo, il termine ossessivo-compulsivo delinea una personalità che è molto intransigente con se stessa, molto severa e rigida. Il succube ha un atteggiamento autofrustrante perché non riconoscendo la propria autostima, si sminuisce e quindi cede facilmente al dominio e alla guida dell’altro, perché non ha piena consapevolezza di sé. Per la sua rigidità, non accetta di aver sbagliato, tanto più in merito alla scelta del partner, così a costo di distruggersi l’esistenza, non ammette di aver fallito. Sono tante poi le componenti e le finestre che si vanno ad aprire e che lo lasciano invischiato nella spirale dell’aggancio.
Il dominante è molto pieno di sé. E’ un ammaliatore, un personaggio fagocitante e inizialmente brillante, ma poi si tramuta in un devastatore.  E’ un narcisista e crede molto in se stesso e nelle sue convinzioni. E’ paranoico nel senso che cerca in tutti i modi di avere la conferma che l’altro lo ami veramente. Nella fase del corteggiamento è impeccabile, ma la sua seduzione è costruita solo per soddisfare tutto ciò che il succube spera di trovare in un partner.

Allora, il dominante è un freddo calcolatore, un uomo senza qualità, programmaticamente in malafede?

Sì, ma anche lui ha le sue fragilità: ha il terrore di non essere nessuno. E’ per questo che ostenta così tanto la sua forza e l’aggressività nei confronti dell’altro. Il dominante non sopporta l’autonomia e l’indipendenza del succube, anche se ne era stato attratto all’inizio, le vive come fuga da lui, come un tradimento. Anche il dominante ha una ferita, che risale ai primi mesi di vita o addirittura al periodo prenatale, quando il bambino è già un essere relazionale, in grado di dare e ricevere amore. L’esperienza clinica sta dimostrando che il legame e l’attaccamento che vengono messi in moto durante il periodo pre e perinatale influiscono e hanno un impatto su tutto ciò che riguarda l’intimità personale, il rapporto familiare e le dinamiche sociali. Se il dominante ha vissuto il distacco dalla propria madre e ha avvertito il rifiuto, la mancanza di calore, cresce con l’idea di contare solo sulle proprie forze, di non aspettarsi nulla, se non rifiuti e, per ovviare a questa sofferenza, crescerà isolato, come modalità di comportamento che mette in atto solo per difendersi. La sua personalità lo tiene ad una certa distanza: né troppo lontano dalla madre per non aver paura di questa solitudine, ma nemmeno troppo vicino da sperimentare di rivivere il rifiuto. Il risultato è una sorta di stand-by dove in pratica da fuori lo vediamo come un anaffettivo, ma questa è una sua barriera. E’ un personaggio che a modo suo soffre, però se lo nega. E per darsi forza ostenta una sicurezza che non ha. E’ talmente corazzato che non permette all’altro di essere messo in dubbio, ecco perché è così aggressivo e non a caso va a cercare personaggi con un candore particolare che poi sono quelli più esposti, perché bisognosi d’amore e che per questo, si danno in maniera incondizionata. Lui li aggancia e ne fa una ragione di vita, traendo dal succube tutta la sua vitalità. Difficilmente molla la presa, perché sganciandosi da questo succube, il dominante non avrebbe più ragione di sentirsi forte.

Si può dire che il succube penda dalle labbra del dominante?

Sì, perché ha un tale bisogno d’amare e di essere amato che baratta tutto questo amore. Ha una grande dipendenza affettiva, crede ciecamente che il suo compagno possa amarlo in maniera così incondizionata come fa lui e in tal modo sposta tutto il suo baricentro sull’altro, diventa come un’appendice del partner, lo idealizza, lo investe di un valore aggiunto necessario ai suoi bisogni psicologici interni, ecco perché poi è così difficile “sganciarsi”.

Qual è campanello d’allarme per riconoscere l’aggancio nevrotico?

Quando ci sono troppe incomprensioni, sensi di colpa e rivalità che prendono il posto dell’amore. Quando il rapporto è fatto di provocazioni e  il dominante che le lancia ha proprio lo scopo di destabilizzare e mantenere il controllo, invischiando l’interlocutore in sensazioni contradditorie che devastano l’autostima e attivano tutta una serie di disturbi di ansia. Quando il partner diventa l’unica ragione di vita o di non vita.

Chi dei due arriva per primo in terapia?

E’ sempre il succube e lo fa quando gli diventa impossibile la vita stessa, quando comincia ad avere difficoltà nei rapporti interpersonali con gli altri, ed è come imprigionato in una bolla di sapone e non sa più a chi credere. Se credere a questo dominante che non fa altro che sminuirlo, allo scopo di trattenerlo in suo potere, oppure credere a quei momenti in cui riesce ad aprire gli occhi, quando ritorna in sé e comincia ad avere delle letture chiare del comportamento dell’altro. Persone che sono arrivate ad un grado di consapevolezza senza avere la chiave di svolta.
Il dominante non entra mai in terapia. Ovviamente lui non ha nessuna intenzione di mettersi in discussione, è perfetto così com’è. Se c’è una sola motivazione che lo spingerà ad avvicinarsi al terapeuta è quella di conoscerlo per demolirlo, per continuare a fare terreno bruciato intorno al succube.

Si può uscire dall’aggancio nevrotico, salvando il rapporto?

Se ne può uscire soltanto ristrutturando la propria personalità e poi ponendo fine alla relazione.

L’aggancio nevrotico può portare alla violenza fisica, oltre che a quella verbale e psicologica che hai già ampiamente illustrato?

Ora stiamo parlando della situazione critica che porta l’individuo a quella che definisco “morte psichica” perché non si ha più voglia di vivere, scatenando una violenza che il succube ritorce innanzitutto contro se stesso. Mi sono capitati casi di persone che hanno provato a lanciarsi in macchina contro un muro, pensando che quella fosse l’unica via d’uscita… C’è poi un passaggio molto delicato ed è questo: mano a mano che il succube comincia a prendere più consapevolezza di sé, reagisce anche con più energia e allora è in quella fase che il dominante può provare più rabbia e fare anche dei gesti violenti.
Io ho descritto questa dinamica stressandola al massimo, ma dobbiamo pensare che all’interno di una coppia ci sono delle intensità diverse, dove la violenza è reciproca, pur non sfociando mai nella condizione di dover chiedere aiuto, preferendo restare in quell’equilibrio, anche se malsano.

Secondo la tua casistica, il dominante è soprattutto uomo?

Non è detto, l’aggancio nevrotico, come dicevo prima, non è una peculiarità di un sesso rispetto all’altro. Nel corso della mia esperienza, però, ho incontrato più donne succubi e ho avuto casi dai 17 ai 60 anni.

Già a 17 anni si può avere una struttura di personalità così ben definita?

L’individuo comincia a strutturarsi di più nella fascia tra i venti e i venticinque anni, ma a diciassette ci sono dei segnali, come quello di essere troppo perfezionisti, esigenti, o con una morale troppo alta.

E sono arrivati da te spontaneamente o su consiglio dei genitori?
Spontaneamente o su consiglio di amici. I genitori poi naturalmente subentrano, ma a quell’età sono gli amici a darti gli scossoni più efficaci. Invece, quando si è più adulti e strutturati, un amico ha più difficoltà ad inserirsi, semplicemente perché ci si pone il problema di invadere la privacy degli altri.



E’ possibile che una coppia a rischio di aggancio nevrotico si riconosca solo in alcune delle caratteristiche della tua griglia e non in altre?

Quando sono così ben delineate e si incastrano perfettamente parliamo di un aggancio nevrotico puro, poi, a diversa intensità, ci sono malesseri di vario tipo che ruotano sempre intorno a questo scenario. Ma c’è un punto in cui non sappiamo se stiamo giustificando il partner, proiettando delle nostre qualità su di lui. Uno dovrebbe chiedersi se sta bene in quella determinata coppia e perché. Farsi una serie di domande: perché ho bisogno di questa relazione? Il mio partner ideale chi è? Questo partner si avvicina al mio ideale e, se no, perché? Mi sto sacrificando adesso perché in futuro capirà e saprà volermi bene? Ma questo è un altro libro che sto scrivendo.

Qualche anticipazione?

Quello che vorrei dare sono dei semplici consigli su come essere in coppia, vedere l’anima collettiva che si viene a formare dall’unione, non solo l’anima dei due individui. La progettualità della coppia dà origine ad una terza anima. Mi è sembrato giusto concludere la triade dei mie libri con un po’ di dolcezza.

Qual è il segreto per stare bene in coppia?

Avere una buona individualità, conoscersi ed essere consapevoli di se stessi, riconoscere l’altro e insieme fondare un progetto in armonia. La coppia deve diventare un luogo in cui sentirsi protetti, contenuti, amati, una riserva di energia per affrontare il mondo esterno. Solitamente, si è portati a scaricare sul partner tutta una serie di frustrazioni che invece dovremmo risolvere in maniera diversa. Quelli che sono consapevoli di sè, non hanno motivo di farsi guerra in casa.

Non ho dubbi che il tuo metodo meriterebbe ben altra divulgazione e applicazione, a partire dai contesti accademici…

Ho la “paternità” ma non ancora il riscontro. Il gruppo d'incontro, sperimentato nel mio studio, è un modo utile e concreto per dare la possibilità al succube di aprirsi. Si potrebbero organizzare dei seminari all’interno dell’Università, ma non saprei proprio come affacciarmi, da dove partire. Ci sono colleghe di Milano che mi hanno scritto per dirmi che hanno cominciato ad usare il mio protocollo terapeutico dopo aver letto i miei libri. Fortuna che almeno su quelli c’è il mio indirizzo email (daniela.dibattista@gmail.com).



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