mercoledì 19 giugno 2013

La passione per Léo Ferré,
tra il mare e la memoria



Qualche anno fa ho incontrato da vicino vicino Juliette Gréco. E’ accaduto al Festival Léo Ferré di San Benedetto del Tronto dove “la musa degli esistenzialisti” incarnava, ancora una volta, il ruolo della vedette. Si è seduta a tavola con noi intorno all’una di notte ed ha accettato di cantare in coro “Nel blu dipinto di blu”, trascinata dall’entusiasmo di Giuseppe Gennari, arzillo “gondoliere” tra il mare e la memoria, con maglietta a righe orizzontali d’ordinanza, travolgente e atletico come Alberto Sordi nel film “Venezia, la luna e tu”. Nessuno resta immune dall’ardore di Pino, professore di francese, nonché poeta e traduttore, che alla scuola della poesia ha imparato a battersi, anche per tenere in vita la rassegna dedicata a Léo, un festival che quest’anno, alla diciottesima edizione e, specie in alcuni momenti altissimi di fusione artista-pubblico, ha raggiunto la maturità classica e moderna insieme.

Giuseppe Gennari, direttore artistico del Festival Léo Ferré
Facendo suo l'adagio (anche musicalmente parlando) di Rimbaud, "On n'est pas sérieux, quand on a dix-septans", grazie all'adattamento in musica realizzato da Ferré, Gennari sembra tradurlo più autobiograficamente come "Non si può essere seri a settantasette anni", al punto da strappare un lungo sorriso persino alla Gréco, famosa per i suoi primi piani da Sfinge, un’icona bella ed enigmatica, dalla posa seriosa e austera. Difficile far impallidire la Gréco, con la sua pelle così chiara da far dire a Picasso che “si abbronzava alla luna”. Eppure a San Benedetto, l’altra sera, è apparsa un’altra Sfinge dagli occhi a mandorla che scioglie ogni incantesimo, regalando anima e corpo alle parole di Léo Ferré. Ecco perché la mia mente è tornata alla Gréco. 


La vedette femminile di questo Festival si chiama Annick Cisaruk, cantante e attrice parigina di padre ucraino e, come la Gréco con il suo amore-autore, il pianista Gérard Jouannest, Annick è accompagnata nella vita e sul palcoscenico dal marito David Venitucci, francese di nonni italiani, emigrati dalla Puglia di Corato alla più italiofona città d’Oltralpe, Grenoble. Un’orchestra racchiusa in una fisarmonica. Sarei rimasta ad ascoltarli per ore. Voce e accordéon, il più lontano possibile dall’uso tradizionale da intrattenimento folk tipico dello strumento che, peraltro, proprio nelle Marche, a Castelfidardo, ha un padre illustre, Paolo Soprani.
Quello di Venitucci è un sistema uomo-strumento, capace di economie di scala prodigiose, dalla melodia, all’arrangiamento, citando intere sezioni orchestrali e assoli, rumori, ambienti evocati di volta in volta dalla canzone eseguita. Per tutte valga la risacca del mare che suggella il finale di “La mémoire et la mer” e mozza il fiato a chi l’ascolta. Superbe!





La costante di questo Festival è la commozione. Perché tutti noi siamo arrivati a Léo Ferré attraverso gli affetti più cari. (Suggerisco, a questo proposito il post di Gatto Atlantico, “Intimamente (Léo e gli altri)”).
Per evitare derive personali, il mio approdo lo racconto attraverso le parole di Maurizio Silvestri, fondamentale alter ego di Gennari nella direzione del festival: “Giugno 1997, le strade di San Benedetto tappezzate da un anacronistico ma fascinoso manifesto nero con qualche accenno di rosso… titolava 3º Festival Ferré e nella prima serata c’erano i mai sentiti Tetes de Bois… La prova sul palco fu straordinaria, una rivelazione lo loro miscela di rock e poesia. Devo a quel concerto l’aver amato le canzoni di Léo.”
C’è dell’altro e arriverà in autunno (un disco dei Tetes, nuovo tributo al grande artista monegasco a dieci anni dal cd “Ferré, l’amore e la rivolta” e a vent’anni dalla sua scomparsa), ma in principio fu un concerto, un compagno o un fratello maggiore. Anche per la bella Annick. Era adolescente agli albori degli anni Settanta e sul giradischi del primogenito di casa Cisaruk, si andava da Léo Ferrè ai Rolling Stones passando per Frank Zappa, forse come naturale elemento di congiunzione tra i primi due. Léo aveva lunghi capelli bianchi e sul sorriso lo spazio di una rosa in mezzo ai denti. In Francia lo chiamano “espace de bonheur”, spazio della felicità. Ce l’hanno Jane Birkin, Vanessa Paradis e la piccola Gea. Anche l’attrice Lea Massari, che il prossimo 30 giugno compirà 80 anni. All’anagrafe Anna Maria, ma scelse il suo nome d’arte in memoria dell’uomo che avrebbe dovuto sposare, Leo.

Un giorno, nell’estate dei suoi 15 anni, Annick Cisaruk va a Lione dove, guarda caso, proprio in serata, si sarebbe esibito Léo Ferré, quello “vecchio” che tuonava dalla cima della pila di dischi del salotto. Ormai il biglietto era nelle sue mani, un regalo del saggio e avveduto fratello, così Annick, seppur controvoglia, varcò l’ingresso di quel teatro. Ne fu sconvolta, l’incontro con la poesia di Léo le mise a soqquadro il cuore al punto da decidere quella sera stessa cosa avrebbe fatto nella vita, salire su un palcoscenico e, un giorno, cantare proprio quei versi di amore e di rivolta. 


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