sabato 16 febbraio 2013

Habemus Festival
La rassegna cambia connotati...


La tentazione di trovare un nesso tra il clima di questa edizione del Festival e i mutamenti storico-sociali che hanno portato il Papa alle dimissioni, è forte.
Le antenne Tese di Elio hanno captato e messo il tutto in rima con un tempismo eccezionale, ma è ancora presto per fare bilanci di questo tipo, almeno finché il cosiddetto “orizzonte storico” non si sarà allontanato un po’.
Sicuramente la conduzione Fazio-Littizzetto ha avuto il suo peso specifico e il gruppo di autori ha fatto la differenza con le edizioni del passato ovattate, tutte inserite e chiuse nell’autoreferenzialità televisiva poco disposte ad uscire dai soliti binari. Certo, Sanremo resta una grande cerimonia dei media e, soprattutto, una gara, con una griglia di partenza piuttosto vincolante. Spetta al gruppo di lavoro, allo stile e alla personalità del conduttore/direttore artistico svincolarlo dalla sua baudità. Questo, credo, abbia fatto Fazio, più abituato ad una quotidianità televisiva che si nutre di realtà, di letture e lettura della realtà e non va a caccia di altri mondi impossibili per anestetizzarla.
Differenza di intendere il Varietà: non un mattatore che esibisce le due bonazze del momento, ma un cavalier cortese che fa calzare alla Littizzetto la scarpetta di Cenerentola, mentre si discute di canzone d’autore, di pianoforte, di musica colta e popolare, di violenza sulle donne, del bene fra gli uomini, di amore senza distinzione di sesso. 

Se un nesso c’è, potremmo dire che, come la Chiesa, anche il festival si laicizza. Il Vicario di Cristo in terra, rinunciando all’investitura divina, si svincola dalla sacralità del suo ruolo, del suo sottostare alla volontà divina che lo vuole lì, indiscusso, sul suo scranno. Ogni futuro Papa sarà lì per volere di altri uomini, per nomina politica, editoriale, come dir si voglia, né più né meno del direttore artistico di Sanremo. 
Un atto rivoluzionario – qualcuno ha già detto – quello di Benedetto XVI. Una rivoluzione laica, aggiungo, quella di cui si mormora anche ad altri piani e in altri strati della società, quella che fa sparire le piume dello struzzo da un programma così nazionalpopolare come il Festival della Canzone ed invita a non abbassare mai la testa. Il movimento di Ingroia, ad esempio, ha intuito questo spazio di recupero, ma avrebbe dovuto più coraggiosamente chiamare il suo impegno “Rivoluzione laica”, non “civile”, e non per una questione di ossimoro (figura retorica di tutto rispetto), tra due termini peraltro nemmeno così in contraddizione come può sembrare, ma perché la parola, l’aggettivo del momento è “laica”. “Rivoluzione laica” meglio esprimerebbe il sentimento di chi non sa a quale movimento votarsi alle prossime elezioni. Rivoluzione laica è quella che mi fa sintonizzare con alcuni artisti e argomenti toccati da questo Sanremo, Elio su tutti, che nella canzone eliminata la prima sera, “Dannati forever”, oltre a sintetizzare il controverso rapporto tra gli uomini e la fede (cantando “pa, pa-pa-pa, pa-pa-pazzesco”), con il suo travestimento e cuoricini rossi cuciti sul risvolto delle maniche, allude all’amore per l’abito talare o con l’abito talare. Il verso capolavoro è: “All’inferno, all’inferno! Co co co come la Reggio Calabria – Salerno” dove il semplice capovolgimento del nome della famigerata autostrada svela l’inquietantissima rima. 

Per me gli Elii dovrebbero vincere, come nel 1996 con “La terra dei cachi”, ma allora arrivarono secondi dopo Ron e Tosca: “Se vinciamo noi, è chiaro che il Festival è truccato, se perdiamo è ovvio che il Festival è truccato”, disse allora il cantante più truccato. Trucchi musicali molto istruttivi e “La canzone mononota” dovrebbe andare a sostituire nell’immaginario sanremese delle scuole dell’infanzia il primato di Povia. Degno di nota l’esilarante finale, a proposito di laico coraggio: “C’è poi il samba di una nota sola / Ma, se ascolti attentamente, dopo un po’ cambia: / Jobim non ha avuto le palle di perseguire un obiettivo / Non ci ha creduto fino in fondo / Invece / Noi / Sì”. L’unico limite del pezzo è che il primo ascolto lo brucia e lo fissa per sempre in quegli unici tre minuti performativi e da canzone “mononota” diventa canzone “monouso”. Perso il gioco a sorpresa, svelato il trucco che ti costringe a seguire come si dipana e dove va parare la canzone, al secondo ascolto è già calata tutta la tensione. Resta però uno straordinario esempio di bravura e di passione per la musica.
Abbiamo un festival che per metà punta sugli autori già consacrati, per metà sugli interpreti, usciti da quelle scuole televisive che a furia di puntare sugli interpreti creeranno una generazione di cantanti pirandellianamente in cerca di autore. Tutte produzioni importanti, a cui molti cantautori di qualità non riescono ad avere accesso, con un unico contentino per i Marta sui Tubi, intesi come “quota indie” e “indipendente” che comincia ad avere una sua fetta canonica della torta festivaliera. Tra i due pezzi della band siciliana, preferivo “Dispari”, un titolo che non può non farmi venire in mente il primo fondamentale disco di Pino Marino. 

Quest’anno, però, si è instaurato una specie di governo ombra. Credo che, sul piano della gara, ci sia un doppio livello di lettura, ovvero una gara parallela fra gli autori. Zampaglione contro Bianconi dei Baustelle, Servillo e Mesolella degli Avion contro Enzo Gragnaniello, la coppia Nannini-Pacifico, Giuliano Sangiorgi addirittura contro se stesso. Molti voti a favore dell’una o dell’altra canzone che ogni artista ha presentato sono stati determinati sicuramente dalla firma più glamour in questo momento. Zampaglione ha scritto una canzone tiromancata e sanremese per Chiara, che l’ha caricata di inutile enfasi, più scontata quella di Bianconi che ci consegna la vincitrice di X Factor in stile Zanicchi anni 90.
In generale, abbiamo ascoltato pezzi vintage, Malika dall’eleganza anni ’60, evoca la Mina delle mani che ricamano la voce alle prese con un classico di Aznavour, Simone Cristicchi, con una filastrocca che poteva benissimo servire da gag ai Gufi e ad Alberto Sordi. Sarò ossessionata dalle citazioni, ma il frac con fiore all’occhiello a Sanremo fa tanto Rino Gaetano e Max Gazzè è notoriamente un grande ammiratore del cantautore calabro-romano. Solo che la canzone più che a Gianna, ammicca a Raffaella (Carrà).
Antonio Maggio
Un applauso a Renzo Rubino, il riscatto di Umberto Bindi mezzo secolo dopo, un altro al vincitore fra i Giovani, Antonio Maggio, che parla e si muove, addirittura fa una leggera rotazione della testa, come Nicola Arigliano. Sarà che anche lui, come il suo illustre conterraneo scomparso, arriva da Squinzano, provincia di Lecce. Non si è persa occasione, tra cantanti, temi, omaggi, gente comune ed ospiti internazionali, per parlare finalmente di omosessualità senza ipocrisie, cercando di stare al passo anche con altre interfacce mediatiche come i social nework.
Quando seguivo da inviata il festival potevo fare il pelo e il contropelo in virtù di 8 giorni di vero e proprio ritiro, ma anche adesso vado a caccia di dettagli che meriterebbero un’evidenza maggiore. Ad esempio, è possibile mettere nero su bianco che il 2013 è il primo anno in cui i selezionati tra i giovani sono tutti anche autori delle proprie canzoni. La tendenza è degli ultimi anni, ma questa volta, sotto questo profilo, non c’è più nessun concorrente sprovveduto. Ottime le referenze dei Blastema, prodotti dalle signore De Andrè, Dori e Luvi, ma suonano davvero, il testo è poetico e hanno fatto un gran figurone. Insieme a Nardinocchi, addirittura eliminato prima dei quarti di finale, sono quelli che possono avere vita artistica indipendentemente dall’esito festivaliero. Dimenticavo Silvestri: tanto era trascurabile la canzone eliminata, quanto nobile e magniloquente “A bocca chiusa”. Protagonista, quest’anno, il pianoforte. Un’ideale consolazione per il Ratzinger musicista, ma lo seguirà il Papa il festival? Gli interesserà il verdetto finale?


lunedì 11 febbraio 2013

Quattro cavalli al Festival...




Alla vigilia del sessantatreesimo Festival di Sanremo, persino il proverbiale ottimismo di Mollica vacilla: “andrà bene? Io lo vedo così fiacco”.  Ogni anno tutti si aspettano qualche miracolo, e San Remo, che difatti si scriverebbe proprio così, staccato, non li fa. L’inviato del Tg1 al seguito della Rai (una legione di 500, 600 persone coinvolte a vario titolo) è da sempre uno dei più affezionati al tradizionale rituale festivaliero, sinceramente preoccupato di risollevare il morale delle truppe. Così ieri sera, al Gran Gala, il solito party di benvenuto per cantanti e addetti ai lavori gentilmente allestito al Victory Morgana Bay, ma puntualmente disertato, scatta la chiacchierata informale tra i pochi habitué che ogni anno si ritrovano a lavorare a braccetto in questa avventura. Ora, è vero che il Morgana è il locale più fashion della città ligure, ma siamo sicuri che questo spreco di ”y”, lunghe file create ad hoc davanti all’ingresso, dj-cocktail set e l’immancabile strizzatina al burlesque possano mettere insieme tutti i protagonisti di questo Festival? Il resoconto finale della festa, infatti, registra i venti minuti di presenza di Luciana Littizzetto e, come unico testimonial della gara, Simone Cristicchi. Forse poteva essere la cornice giusta per la spumeggiante Clerici o per il Bonolis più mattacchione, sicuramente meno per l’inappuntabile e sobrio Fazio e, non a caso, lustrini e paillettes sono spariti anche dalla scenografia dell’Ariston.
Dopo diciannove Festival a cura di Gaetano Castelli, la novità di quest’anno è l’arrivo di Francesca Montinaro, autrice di installazioni e scenografa dei programmi di Fazio e Saviano su Rai tre e della Bignardi su La7. Nel frattempo il “titolare” non è scomparso: costruisce castelli per la tv albanese e altri sogni al Moulin Rouge di Parigi.

L’ispirazione della Montinaro unisce “lo stupore barocco ideato dai fratelli Bibbiena, gli strappi logori di Burri e i tagli filosofici di Fontana che fenderanno lo spazio''.
Una scala centrale su un fondale fatto di teli di iuta, stile “Edward mani di forbice” e molto teatrale, la cui trasposizione televisiva sarà nelle mani di luce di Ivan Pierri, direttore della fotografia.
Tra color che son sospesi, restano ancora una volta gli orchestrali, fatti lievitare dalla buca canonica fin sopra gli obliqui trespoli dove sono appese le luci. Pare che la comodità e la possibilità di manovra per il musicista sia pari a quella di una seggiovia, con ringhiera pensata per una giusta protezione, ma non a misura di tromba e altri fiati a continuo rischio di impatto con la gabbia in piccionaia. Dopodiché, speriamo che nessuno degli orchestrali, già poco entusiasti del panorama, debba mai alzarsi prima del previsto.

A completare il bozzetto iniziale, prosegue con altri dettagli una delle arredatrici, da tre settimane in trasferta per l’allestimento: “l’atmosfera è più cupa degli altri anni e anche in giro vedo poco movimento. Sarà anche questo un segno della crisi”. Dettagli di arredamento sono la sua specialità, per il Festival e per i programmi Rai che di canzone sanremese in questi giorni si nutrono.  Manca solo “La vita in diretta”: “Prima veniva su tutta la redazione e faceva base al Casinò. Quest’anno ci saranno solo gli inviati. Uno studio in meno da allestire”.
Poi c’è la parte istituzionale. “Alcune stanze dell’Ariston si trasformano in eleganti uffici per i direttori. Dai magazzini di via Teulada, Saxa Rubra e Dear ogni anno vengono rispolverati per una settimana tappeti, scrivanie, divani, computer e monitor per il direttore generale, il direttore di Rai uno, la segreteria di rete e il direttore dei grandi eventi. Solo il palcoscenico è imprevedibile e più raffinata è la scenografia, più di livello alto sono il design e il prezzo delle poltrone in scena per gli ospiti di turno. Da Roma sono arrivati due bilici solo per l’arredamento”.
Nessuna richiesta da camerino o capriccio da star. “Fazio è una persona molto riservata e questo starsene per conto suo, con il suo gruppo di autori che gli fanno da filtro, ha creato malcontento e distacco con noi della troupe, scenografi, assistenti audio, cameraman. Fino all’anno scorso c’era questa tradizione di stare tutti insieme, con i cantanti che si fermavano alle prove dei colleghi, addirittura sancita dal motto di Morandi “stiamo uniti”, ma quest’anno è tutto così sottotono e Fazio non si è mai visto in teatro e non ha ancora fatto le inquadrature”.
In un primo momento, inoltre, nel concept scenografico, non era prevista nemmeno un’apertura per consentire il passaggio di materiali di scena e persino le scalette che collegano il proscenio alla platea (tante volte qualcuno fosse invitato a salire sul palco) erano scomparse.
“Quest’anno, però, il direttore generale Gubitosi in prima fila non vuole vedere nessuno... " spiega
la corrispondente di questo post che preferisce l'anonimato. "Sarà per questo che il sipario della rassegna si alzerà a illuminare e a scoprire tutta una parte del pubblico, le cosiddette poltronissime, vuote e messe sotto vetro, coperte e protette da una teca trasparente”. Una prima inquadratura ad effetto sul cui significato metaforico c’è da meditare.
Qualche posto riservato si recupererà con nuove poltrone laterali al palco, alimentando nello spettatore il fascino e il mistero di questo Teatro Ariston che, nella realtà, è molto più piccolo di quanto la tv riesca a far credere.





Infine, rispetto al cavalier Benigni di due anni fa, l’ingresso della Littizzetto sarà da favola, sulla carrozza di Cenerentola trainata da quattro cavalli bianchi, ma dovrà fermarsi e scendere fuori dal teatro. Al Festival 2013 il primo desiderio l’ha esaudito proprio l'arredatrice di questa anteprima, contattando una ditta romana che affitta mezzi di trasporto d’epoca per il cinema. Se dici mila… un genio della lampada ripeterà anche il prezzo.