lunedì 25 novembre 2013

Amare umanum est,
perseverare autem diabolicum

Il metodo “Di Battista” per sciogliere l'“aggancio nevrotico” e uscire da una relazione quando l'amore diventa una trappola




Non è facile sganciarsi da una relazione a catena. La psicologa e psicoterapeuta Daniela Di Battista, specializzata in terapia cognitivo comportamentale, direbbe che la coppia è finita in gabbia, intrappolata. Ha dedicato due libri e oltre un ventennio di studio a un’intuizione fondamentale che ha definito, con linguaggio altrettanto sagace, “aggancio nevrotico”. Qualcosa che ha a che fare con l’”odi et amo” di catulliana memoria, tanto che il primo libro della Di Battista s’intitolava “Amore mio ti odio” (Zines edizioni). 
Si tratta di una pericolosa forma di sudditanza psicologica che logora i rapporti coniugali fino alle conseguenze più estreme e, anche se la Di Battista non ha mai parlato di connessioni tra l’aggancio nevrotico e il femminicidio, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un protocollo come questo potrebbe aprire una nuova riflessione sugli stili di relazione nelle coppie che si separano o che non riescono a farlo.
Nel suo secondo libro, “La coppia intrappolata”, edito da Springer, la Di Battista ha persino inserito un test per misurare il rischio di diventare troppo dipendente da un partner a discapito della propria autonomia e quindi probabile vittima di un aggancio nevrotico.
I campanelli d’allarme esistono, bisogna saperli riconoscere e distinguere i segnali inquietanti dalle eccentriche e puramente folkloristiche manifestazioni di personalità.
“Quante volte – spiega la Di Battista – abbiamo sentito donne lamentarsi del marito perché non considerate, trattate come bambine, a volte anche un po’ stupidine, e loro di conseguenza sentivano di non riconoscersi più, di aver perso il contatto con se stesse, di non avere più una personalità, di avere persino paura di parlare per non essere criticate. Quante volte abbiamo sentito uomini parlare di donne e lamentarsene, recriminare che dopo il matrimonio erano diventate aggressive e che non facevano altro che sminuirli e ridicolizzarli davanti ai figli, agli amici, parenti. E poi vedere negli occhi di questi individui la rassegnazione, il vivere il tutto come qualcosa di ineluttabile, e tanti potrebbero essere gli esempi”. A questo punto del racconto della Di Battista abbiamo già incasellato nella sua griglia l’amico, il parente, il conoscente. Ed è per questo che, nell’intervista, tentiamo di spiegare i segnali di una nevrosi sempre in agguato.

Il primo dato che emerge dalla tua analisi, Daniela, è che l’aggancio nevrotico può manifestarsi solo all’interno di una relazione tra due strutture di personalità ben precise. Quali?

E’ una combinazione quasi matematica che nasce dall’incontro tra un individuo con una struttura di personalità “dominante” e un individuo “succube” e non è una peculiarità di un sesso rispetto all’altro, non dipende da una scelta sessuale, né dall’età.

Definiamo l’ "aggangio nevrotico”.

E’ l’anello mancante dell’uno e dell’altro individuo. Con la parola “aggancio” sottolineo il bisogno di sentirsi legato ad un’altra persona, di avvertire un’unione con il partner. Con “nevrotico” indico un disturbo del comportamento che si verifica tutte le volte che abbiamo una lettura distorta della realtà. Quando questa lettura che non corrisponde al reale ci è propinata in maniera diretta o anche subdola, dal nostro partner che, come una specie di mantra, non fa altro che ripeterci che siamo inadeguati, inetti, fino ad instillare tutta una serie di condizionamenti per assicurarsi il predominio e tenere l’altro in uno stato di instabilità e dipendenza, abbandoniamo il nostro modo di leggere la realtà, ci aggrappiamo a quello dell’altro, la mente si aggancia nevroticamente a quello schema di realtà che non è il nostro. Siamo indotti a pensare di non essere capaci o idonei a fare qualcosa e invece lo siamo, ma non ce ne rendiamo più conto, vittime del più classico “lavaggio del cervello”.

Puoi fornirci un identikit dei due personaggi coinvolti?

Il “dominante” ha un orientamento di personalità paranoide e narcisistico. Il “succube” possiede un orientamento di personalità dipendente, autofrustrante e ossessivo-compulsivo, che non vuol dire lavarsi le mani in maniera compulsiva o ripetere sempre le stesse cose. Nel gergo che utilizziamo, il termine ossessivo-compulsivo delinea una personalità che è molto intransigente con se stessa, molto severa e rigida. Il succube ha un atteggiamento autofrustrante perché non riconoscendo la propria autostima, si sminuisce e quindi cede facilmente al dominio e alla guida dell’altro, perché non ha piena consapevolezza di sé. Per la sua rigidità, non accetta di aver sbagliato, tanto più in merito alla scelta del partner, così a costo di distruggersi l’esistenza, non ammette di aver fallito. Sono tante poi le componenti e le finestre che si vanno ad aprire e che lo lasciano invischiato nella spirale dell’aggancio.
Il dominante è molto pieno di sé. E’ un ammaliatore, un personaggio fagocitante e inizialmente brillante, ma poi si tramuta in un devastatore.  E’ un narcisista e crede molto in se stesso e nelle sue convinzioni. E’ paranoico nel senso che cerca in tutti i modi di avere la conferma che l’altro lo ami veramente. Nella fase del corteggiamento è impeccabile, ma la sua seduzione è costruita solo per soddisfare tutto ciò che il succube spera di trovare in un partner.

Allora, il dominante è un freddo calcolatore, un uomo senza qualità, programmaticamente in malafede?

Sì, ma anche lui ha le sue fragilità: ha il terrore di non essere nessuno. E’ per questo che ostenta così tanto la sua forza e l’aggressività nei confronti dell’altro. Il dominante non sopporta l’autonomia e l’indipendenza del succube, anche se ne era stato attratto all’inizio, le vive come fuga da lui, come un tradimento. Anche il dominante ha una ferita, che risale ai primi mesi di vita o addirittura al periodo prenatale, quando il bambino è già un essere relazionale, in grado di dare e ricevere amore. L’esperienza clinica sta dimostrando che il legame e l’attaccamento che vengono messi in moto durante il periodo pre e perinatale influiscono e hanno un impatto su tutto ciò che riguarda l’intimità personale, il rapporto familiare e le dinamiche sociali. Se il dominante ha vissuto il distacco dalla propria madre e ha avvertito il rifiuto, la mancanza di calore, cresce con l’idea di contare solo sulle proprie forze, di non aspettarsi nulla, se non rifiuti e, per ovviare a questa sofferenza, crescerà isolato, come modalità di comportamento che mette in atto solo per difendersi. La sua personalità lo tiene ad una certa distanza: né troppo lontano dalla madre per non aver paura di questa solitudine, ma nemmeno troppo vicino da sperimentare di rivivere il rifiuto. Il risultato è una sorta di stand-by dove in pratica da fuori lo vediamo come un anaffettivo, ma questa è una sua barriera. E’ un personaggio che a modo suo soffre, però se lo nega. E per darsi forza ostenta una sicurezza che non ha. E’ talmente corazzato che non permette all’altro di essere messo in dubbio, ecco perché è così aggressivo e non a caso va a cercare personaggi con un candore particolare che poi sono quelli più esposti, perché bisognosi d’amore e che per questo, si danno in maniera incondizionata. Lui li aggancia e ne fa una ragione di vita, traendo dal succube tutta la sua vitalità. Difficilmente molla la presa, perché sganciandosi da questo succube, il dominante non avrebbe più ragione di sentirsi forte.

Si può dire che il succube penda dalle labbra del dominante?

Sì, perché ha un tale bisogno d’amare e di essere amato che baratta tutto questo amore. Ha una grande dipendenza affettiva, crede ciecamente che il suo compagno possa amarlo in maniera così incondizionata come fa lui e in tal modo sposta tutto il suo baricentro sull’altro, diventa come un’appendice del partner, lo idealizza, lo investe di un valore aggiunto necessario ai suoi bisogni psicologici interni, ecco perché poi è così difficile “sganciarsi”.

Qual è campanello d’allarme per riconoscere l’aggancio nevrotico?

Quando ci sono troppe incomprensioni, sensi di colpa e rivalità che prendono il posto dell’amore. Quando il rapporto è fatto di provocazioni e  il dominante che le lancia ha proprio lo scopo di destabilizzare e mantenere il controllo, invischiando l’interlocutore in sensazioni contradditorie che devastano l’autostima e attivano tutta una serie di disturbi di ansia. Quando il partner diventa l’unica ragione di vita o di non vita.

Chi dei due arriva per primo in terapia?

E’ sempre il succube e lo fa quando gli diventa impossibile la vita stessa, quando comincia ad avere difficoltà nei rapporti interpersonali con gli altri, ed è come imprigionato in una bolla di sapone e non sa più a chi credere. Se credere a questo dominante che non fa altro che sminuirlo, allo scopo di trattenerlo in suo potere, oppure credere a quei momenti in cui riesce ad aprire gli occhi, quando ritorna in sé e comincia ad avere delle letture chiare del comportamento dell’altro. Persone che sono arrivate ad un grado di consapevolezza senza avere la chiave di svolta.
Il dominante non entra mai in terapia. Ovviamente lui non ha nessuna intenzione di mettersi in discussione, è perfetto così com’è. Se c’è una sola motivazione che lo spingerà ad avvicinarsi al terapeuta è quella di conoscerlo per demolirlo, per continuare a fare terreno bruciato intorno al succube.

Si può uscire dall’aggancio nevrotico, salvando il rapporto?

Se ne può uscire soltanto ristrutturando la propria personalità e poi ponendo fine alla relazione.

L’aggancio nevrotico può portare alla violenza fisica, oltre che a quella verbale e psicologica che hai già ampiamente illustrato?

Ora stiamo parlando della situazione critica che porta l’individuo a quella che definisco “morte psichica” perché non si ha più voglia di vivere, scatenando una violenza che il succube ritorce innanzitutto contro se stesso. Mi sono capitati casi di persone che hanno provato a lanciarsi in macchina contro un muro, pensando che quella fosse l’unica via d’uscita… C’è poi un passaggio molto delicato ed è questo: mano a mano che il succube comincia a prendere più consapevolezza di sé, reagisce anche con più energia e allora è in quella fase che il dominante può provare più rabbia e fare anche dei gesti violenti.
Io ho descritto questa dinamica stressandola al massimo, ma dobbiamo pensare che all’interno di una coppia ci sono delle intensità diverse, dove la violenza è reciproca, pur non sfociando mai nella condizione di dover chiedere aiuto, preferendo restare in quell’equilibrio, anche se malsano.

Secondo la tua casistica, il dominante è soprattutto uomo?

Non è detto, l’aggancio nevrotico, come dicevo prima, non è una peculiarità di un sesso rispetto all’altro. Nel corso della mia esperienza, però, ho incontrato più donne succubi e ho avuto casi dai 17 ai 60 anni.

Già a 17 anni si può avere una struttura di personalità così ben definita?

L’individuo comincia a strutturarsi di più nella fascia tra i venti e i venticinque anni, ma a diciassette ci sono dei segnali, come quello di essere troppo perfezionisti, esigenti, o con una morale troppo alta.

E sono arrivati da te spontaneamente o su consiglio dei genitori?
Spontaneamente o su consiglio di amici. I genitori poi naturalmente subentrano, ma a quell’età sono gli amici a darti gli scossoni più efficaci. Invece, quando si è più adulti e strutturati, un amico ha più difficoltà ad inserirsi, semplicemente perché ci si pone il problema di invadere la privacy degli altri.



E’ possibile che una coppia a rischio di aggancio nevrotico si riconosca solo in alcune delle caratteristiche della tua griglia e non in altre?

Quando sono così ben delineate e si incastrano perfettamente parliamo di un aggancio nevrotico puro, poi, a diversa intensità, ci sono malesseri di vario tipo che ruotano sempre intorno a questo scenario. Ma c’è un punto in cui non sappiamo se stiamo giustificando il partner, proiettando delle nostre qualità su di lui. Uno dovrebbe chiedersi se sta bene in quella determinata coppia e perché. Farsi una serie di domande: perché ho bisogno di questa relazione? Il mio partner ideale chi è? Questo partner si avvicina al mio ideale e, se no, perché? Mi sto sacrificando adesso perché in futuro capirà e saprà volermi bene? Ma questo è un altro libro che sto scrivendo.

Qualche anticipazione?

Quello che vorrei dare sono dei semplici consigli su come essere in coppia, vedere l’anima collettiva che si viene a formare dall’unione, non solo l’anima dei due individui. La progettualità della coppia dà origine ad una terza anima. Mi è sembrato giusto concludere la triade dei mie libri con un po’ di dolcezza.

Qual è il segreto per stare bene in coppia?

Avere una buona individualità, conoscersi ed essere consapevoli di se stessi, riconoscere l’altro e insieme fondare un progetto in armonia. La coppia deve diventare un luogo in cui sentirsi protetti, contenuti, amati, una riserva di energia per affrontare il mondo esterno. Solitamente, si è portati a scaricare sul partner tutta una serie di frustrazioni che invece dovremmo risolvere in maniera diversa. Quelli che sono consapevoli di sè, non hanno motivo di farsi guerra in casa.

Non ho dubbi che il tuo metodo meriterebbe ben altra divulgazione e applicazione, a partire dai contesti accademici…

Ho la “paternità” ma non ancora il riscontro. Il gruppo d'incontro, sperimentato nel mio studio, è un modo utile e concreto per dare la possibilità al succube di aprirsi. Si potrebbero organizzare dei seminari all’interno dell’Università, ma non saprei proprio come affacciarmi, da dove partire. Ci sono colleghe di Milano che mi hanno scritto per dirmi che hanno cominciato ad usare il mio protocollo terapeutico dopo aver letto i miei libri. Fortuna che almeno su quelli c’è il mio indirizzo email (daniela.dibattista@gmail.com).



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martedì 29 ottobre 2013

Federico Fellini e Lucio Dalla, confidenze musicali alla radio

Fellini apre la porta occulta della sua musica al corsaro e argonauta Lucio Dalla

"Alla fine dei nostri giorni, se ci fosse concesso di dire qualcosa... sono convinto che sceglieremmo i versi di una canzone, una canzonetta, come senso di tutta la vita".

A vent'anni dalla scomparsa del regista, la registrazione integrale di "Studio 2" del 25 ottobre 1990, programma della fascia pomeridiana di Rai Stereo Due.


D: Buongiorno sono Lucio Dalla e sono nello studio di un mio grande mito, ve lo spiegherò nel nostro incontro e lo capirete dalle cose che sono di lui. E’ Federico Fellini, lo conosco da molto tempo come la maggior parte degli italiani, ma posso dire che ho l’onore di telefonargli ogni tanto...

F: E’ vero, a Natale, a Pasqua, per i compleanni che ormai si susseguono con un ritmo impressionante, arriva la voce di questo amico fantastico… ci siamo visti poche volte, ma mi hai sempre dimostrato una simpatia, un sentimento d’amicizia che mi sembra di conoscerlo dalle Elementari, anche se tu, Lucio, sei un po’ più vecchio di me… sono le amicizie più belle queste che si basano su una premessa, sono amicizie tutte da consumare e speriamo che questo incontro sia l’occasione per cercare di stabilire un rapporto che ci permetta di stare insieme più spesso… e chissà anche di lavorare insieme… Io ti ho visto la prima volta in una visione un po’ infernale… un po’ com’era la discoteca nel mio ultimo film, “La voce della luna”, al Teatro Tenda, sono entrato, e probabilmente gli organi acustici del mio organismo sono forse un po’ fragili e, in mezzo a un gran fumo, ti ho visto in fondo a un palco, una platea urlante, stridente, che mandava strida come i pipistrelli, decibel quasi quasi irraggiungibili, e laggiù c’eri tu dietro a una tastiera con il tuo cuffiotto in testa e sembravi un’immagine salgariana, un corsaro, un pirata, Sandokan, tanto più che i canglori che partivano dalla tua tastiera potevano sembrare delle cannonate…
Ho visto che controllavi la situazione, eri tu che scatenavi questo entusiasmo, questa marea di urla, anche un po’ isteriche, gioiose, sempre…

D: Volevo tranquillizzare gli ascoltatori che questo non era altro che un concerto, tu hai fatto una descrizione epica!

F: Una battaglia navale…

D: Ma io mi ricordo, con altrettanto stupore, che Federico è arrivato durante il concerto e con grandissima gentilezza si è seduto all’interno della tenda. Sono convinto che se fossi andato a sederti in mezzo al pubblico, non avrei saputo come tranquillizzare la gente, perché non è normale vedere un protagonista della nostra storia che assiste a un concerto…

F: …ma a un concerto di Lucio Dalla potrebbe esserci anche Vittorio Emanuele II, Garibaldi, tutti quanti dovrebbero assistere a un tuo concerto, per la forza evocativa che hanno i tuoi spettacoli, sono un po’ medianici…
Tornando alla forza misteriosa della musica, ho visto che lì scatenavi e, nello stesso tempo, dominavi questa dimensione magmatica, misteriosa, viscerale, veramente un’invasione, com’è sempre la musica…
Come è misteriosa per me la musica… ne rimango affascinato e impaurito, tanto che sono ormai diventate leggenda nei ristoranti le mie inquietudini appena vedo arrivare verso di me suonatori ambulanti, come se al posto della chitarra o della fisarmonica avessero un mitra…
Mi ha sprofondato in una dimensione di profonda malinconia, la musica, come se mi restituisse a una condizione animalesca, quasi canina, mi metterei ad ululare di malinconia, me ne devo difendere, a meno che non lavoro.
Ecco, se lavoro posso fare tutto, il lavoro diventa un grande scafandro, una protezione da qualsiasi cosa, se no la musica mi aggredisce, ma probabilmente è perché ti restituisce il peso, la miserabilità della tua situazione. Con questo ricatto continuo di alludere a qualche cosa di più perfetto, di più armonioso, qualcosa dalla quale sembra che tu sembra debba essere escluso. E’ ricattatorio. Io ho fatto dire nel mio ultimo film, a quell’oboista (scusa se mi cito), “la musica dovrebbe essere proibita per legge”.

D: E’ da grande amore però, una frase così ingiustificata e coraggiosa significa che uno si aspetta chissà cosa dalla musica… perché tu dici che dovrebbe essere abolita?

F: Stamattina, sapendo che t’avrei incontrato ho telefonato all’amico Nicola Piovani. Mi ha detto “salutamelo, per me è il più grande. E’ il più grande insieme a Gino Paoli, a Conte, De Gregori…” Mi ha parlato di te in termini di vera, sincera, ammirazione, tu lo conosci Nicola, immagino…

D: Non solo lo conosco, lo invidio, perché lavora con te.

F: Chi lo sa se il prossimo film… non avrà, invece, le musiche di Dalla…

D: Così mi spara Piovani… Se tu mi consenti, non solo so tutto di te, ma so tutto della tua musica.

F: Non dire “la mia musica”, che mi fai sprofondare in una dimensione di vergogna…

D: non può essere che la musica di Fellini, la musica dei film di Fellini… qui ho un pianoforte… Sono un cane a suonare perché tanto era il mio desiderio di suonare la musica che non ho mai imparato bene uno strumento…

F: era anche un mio desiderio… Dal momento che siamo in tema di confidenze sgangherate, devi sapere che io ho tentato di imparare a suonare il pianoforte. Il primo insegnante era un vecchietto, ma avevo già 45 anni e non mi riconoscevo più con tanta disinvoltura e umiltà nel ruolo dello scolaretto e le insistenze per allargare le dita, scavalcarle per fare la scala… ho lasciato perdere. Allora ho pensato che una maestra e molto attraente, avrebbe potuto costituire una maggiore attrazione e spingermi a una maggiore regolarità. La maestra c’era. Era di Ferrara, una bellissima signora… non abbiamo suonato niente, però siamo andati a pranzo, a cena, qualche passeggiatina…

D: Eri ancora ragazzino…

F: Avevo già passato la cinquantina, ma anche la ferrarese… a me piacciono le tardone, a te no?

D: Sì, non solo, ma è bello mettersi a sudare a 50 anni… io mi sono iscritto a psicologia, tre anni, fa, solo che non ho più potuto frequentare perché mi addormentavo regolarmente…

F: ma tu ti sei iscritto a psicologia perché venivi presentato come un caso?

D: Perché di fronte a casa mia, che tu conosci, a Bologna, c’è il convento di San Domenico che ospita l’Università per anziani… tanto anziano lo sto per diventare… Per me l’anzianità è una gratificazione incredibile perché è l’alternativa ai ritmi micidiali della mia vita fino ad ora.. solo che per lavoro non dormo mai, se non lavoro mi addormento come una zucca. I frati mi hanno cacciato via dicendo “sarai un bravo cristiano, ma non puoi venire all’Università e dormire…” Ma ora, se mi consenti, mi organizzo, e ti faccio sentire i tuoi pezzi…Io non mi ricordo e non ci tengo a citare le cose come stanno…

F: Questa è 8 e mezzo, la danza della Saraghina, la rumba… ora mi commuovo perché mi vengono in mente delle cose bellissime…
Con Nino, e anche con Nicola succede così, quando si arriva alla fase musicale di un film, a mettere la musica in un film, io che sono ignorantissimo, sono sempre indifeso, ci vorrebbe uno psicanalista di genio per tentare di individuare che cos’è che mi aggredisce in modo tale da preferire di fuggirla.
Sono quattro o cinque motivi, sempre gli stessi, che ho sentito da ragazzino, la marcia dei gladiatori del circo, la Titina… “Io cerco la titina, pa pap parapara”, e la rumba, che sono stati tre motivi traumatizzanti…
A parte i ricordi personali, l’amicizia con Nino, la lunghissima collaborazione trentennale, si ripropone sempre il solito mistero: perché quattro note, una nota seguita da un’altra, una piccola pausa e una terza nota debbano poi strangolarti di emozione, prenderti alla gola? A cosa allude, di cosa parlano, perché la musica ha questa immediatezza, ti fa arrendere, ti consegna completamente?

D: perché è sfrontata, senza vergogna.

F: Stravinskij diceva “non si può dire nulla sulla musica perché è vicina a Dio”. Al di là del misticismo che tutti noi siamo disposti ad attribuire a questa atmosfera magica che ha la musica, questa frase di Stravinskij è una frase da condividere.
Io guardo a voi musicisti, tra gli artisti, con una forma di ammirazione un po’ stupefatta, mi sembrate come degli astronauti, come dei palombari o quelli che si espongono a delle radiazioni pericolose. Forse io avrò un’animula un po’ fragile, avrò conservato un aspetto più adolescenziale che è più vulnerabile, aggredibile, ma a meno che non debba lavorare, a meno che la musica non serva ad esaltare un mio film e allora non mi aggredisce, non mi ferisce, non mi strangola, la posso portare benissimo, anzi mi sembra di controllarla, altrimenti la evito, la evito… credo che bussi più o meno ostentatamente a una porta che uno preferisce tenere chiusa.
E’ proprio il mezzo, il veicolo che porta a qualche cosa di te stesso, la porta occulta, la stanza segreta, allora guardo a voi come a dei coraggiosissimi astronauti, argonauti… riuscite ad andare là dove la maggior parte della gente rifiuta…

D: Il pubblico che ascolta forse dovrebbe sapere che la più grande ambizione di un musicista è quello di dare immagini alla sua musica. Capisco la frase di Stravinskij, il suo furore epocale giustificato. Però credo che il sogno di ognuno, dal primo rottame che suona per strada, è proprio quello che chi ascolta chiuda gli occhi e immagini le immagini. L’ho sempre detto che tu oltre ad essere un uomo di cinema, sei un uomo a 360 gradi raccontatore. Tu immagini la musica. Tutti dovrebbero conoscere Rota al di là dei tuoi film. Sono convinto che la grandezza della sua musica si sposi perfettamente con l’invenzione della tua regia, ecco perché sono certo che sotto queste musiche ci sia anche tu… anche come uso della parola. Non potrei immaginare le parole dei tuoi film scollati dalla musica.
Quando ad esempio Mastroianni incontra Nico a via Veneto ne “La Dolce Vita”, è un musical. Nella ricerca del suono delle parole c’è grande musicalità, ecco perché poi me le ricordo così bene. Perché non mi ricordo bene i film di Ėjzenštejn?

F: Perché erano muti.

D: A parte quello, perché non c’era proprio la possibilità di collegare… erano più muti di quello che sembra.

F: sto scherzando… poi non sono neanche sicuro che fossero muti, non li ho mai visti, lo devo confessare…

D: ma io cercavo uno distante da te, potrei dire tanti altri film, perché il tuo suono e la tua musica hanno una funzione importante, pensiamo ad “Amarcord”. Sai che ti ho rubato un pezzo?

F: a Rota… non a me.

D: c’era una canzone che si chiamava “Anna bellanna”che cominciava in un modo poi ad un certo punto cambiava, se no, andavo in galera…

F: a proposito di questo pezzo qui, sai che Nino non poteva fare musica tutto il giorno, un altro aspetto un po’ sacerdotale, comunque iniziatico… Le due ore vere in cui entrava a contatto con quella parte di se stesso che abitava in questo mondo della musica dove probabilmente i motivi erano già pronti, era al tramonto. Infatti, quando si doveva cominciare ad occuparsi della parte musicale del film, andavo a casa sua, come stiamo seduti io e te. Lui al pianoforte, io vicino. Lui i miei film non li ha mai visti, non li vedeva, perché Nino aveva una prerogativa tipica degli angeli e dei neonati. Ancora prima che si spegneva la luce in sala, si addormentava. Quindi i film non li ha mai visti, si svegliava a tratti e diceva, ad esempio, bello quell’albero, dove l’hai trovato? A parte il fatto che non c’era nessun albero…

D: perché sognava…

F: Alla fine diceva: “allora quando cominciamo? Ma lo sai che ho dormito tutto il tempo?” Me ne ero accorto… anche perché aveva un lieve ronfare… non li ha mai visti… Nino però gli bastava che io gliene parlassi un po’ e i miei discorsi non erano tanto riferiti al film, quanto al sentimento che volevo esprimere in quella sequenza con la musica e i miei riferimenti musicali erano proprio miserabili: La Titina, La marcetta dei gladiatori, Fontane all’alba, Pavia, sempre i soliti autori che avevo sentito da bambino e che mi hanno accompagnato e mi accompagneranno fino alla fine. Io sono convinto che alla fine della vita, se ci fosse concesso di dire qualcosa, ma lei cosa può dire della vita, caro amico,  lei che adesso, a 104 anni, ha deciso di salutarci… io sono convinto che se uno fosse completamente sincero direbbe una canzonetta, come senso di tutta la vita. Me ne accorgo da questi quattro o cinque motivi che mi aggrediscono con la stessa commozione, la stessa nostalgia, lo stesso rimpianto della musica, che ti fa rimpiangere. Te lo domando e voglio una risposta filosofica, scientifica, consolatoria e molto lucida. Che cosa ti fa rimpiangere a te la musica?

D: io sicuramente ho un rapporto sgangherato col passato… mi fa rimpiangere quello che non è stato. La grande profonda malinconia che mi lega alla musica è il rimpianto delle cose che non ho vissuto perché, a differenza di te, non ho collegato un motivo a un mio vecchio film della mia vita, ma alle mie ansie, alle mie frustrazioni. Ad esempio, la nostalgia del mio non essere alto, di non essere mai stato alto nella mia vita…

F: VOCE: nella tua musica sei altissimo

D: è drizzare la gobba ai gobbi la musica…

F: è un’enorme ambigua e traditrice consolazione.

D: sicuramente…

F: una volta Bernstein alla domanda di un giornalista che gli chiedeva: ma se lei dovesse definire la musica? Quelle domande che fanno in generale venire i nervi… Che cos’è la musica? E lui disse una cosa che mi sembra molto esatta, geniale, precisa: l’ineluttabilità… E quindi quella nota, quello spazio, quell'altra nota, l’allusione a una terza nota che non può essere che quella e soltanto quella fra un milione di combinazioni soltanto quelle tre note, con quella misura e con quella distanza, come fosse appunto una costruzione, una cattedrale, una chiesa… non puoi mettere un mattone in più, un mattone in meno. Mentre Nino componeva, le note le giudicavo solo sul piano delle emozioni che mi provocavano. Se mi facevano venire gli occhi lustri o mi mettevano in quello stato d’animo che ti fa balbettare, era il segno che era giusto quello che aveva fatto. Nino mi guardava stupido e mi diceva: “che strano, tu giudichi un musicista sul piano emotivo, per un musicista non è così, almeno non per me”. Io gli dicevo: “Per me questo motivetto che hai fatto è bellissimo, struggente, nostalgico, ti carica di nostalgie, più o meno letterariamente sul piano dell’emozione, quindi in altre parole, va bene, è bello, ma a te, Nino cos’è che ti fa pensare che è giusto? E lui: “per me la musica è architettura. Questo motivo che tu trovi bello, io lo trovo giusto perché è architettonicamente composto bene. Aveva una visione quasi matematica. Anche per te il giudizio su una tua costruzione dipende da questo?

D: io purtroppo sono un contaminatore, un dilettante, faccio la musica e mi piace immaginarla che esca a un semaforo da un’altra macchina nella zella, nel marciume della vita quotidiana.

F: Questa è l’ispirazione…

D: La penso così, la contamino…

F: è un’emozione visuale che ha degli agganci con la vita di tutti i giorni, nasce proprio da quello…

D: nasce proprio da quello… Soprattutto non so una nota di musica, questo è uno scandalo incredibile... Eppure vengo proprio attivato dalla sensazione che la mia canzone in un dato momento la stiano ascoltando a Crotone, oppure che due ragazzi fanno l’amore a Messina o in Alto Adige con la mia canzone, questo mi esalta e mi porta a produrre il meglio per loro, quindi delle volte faccio anche delle nefandezze sottilmente erotiche ed erotizzanti…

F: confermi quello che io tentavo di dire prima, più o meno confusamente, è un fatto medianico, sei uno strumento…

D: non come un architetto medievale o gotico, ma come un cialtrone della Bassa…

F: come un maghino della Bassa, uno stregoncino, un sensitivo… ma l’artista è sempre così, è sempre un medium. Noi crediamo che siamo noi che facciamo le cose, scusa se mi cito così spudoratamente, ma d’altra parte… siamo noi due… Così certe volte, quando mi capita di vedere, entrando in un bar a telefonare, sulla televisione sospesa in aria accanto alle bottiglie, un mio film e mi fermo a guardare, la domanda che mi è venuta spesso, tutte le volte che mi è capitato di rivedere un mio film: ma chi è che ha fatto questo? Io? Con la mia pigrizia, la mia approssimazione, la mia indolenza, gli appuntamenti telefonici che ho continuamente per rinviare l’appuntamento vero, con una vita così tutto sommata disordinata, impasticciata, come ho fatto a organizzare tanta gente, a imporre la mia volontà, a stabilire tutte le luci, le distanze, le profondità, come ho fatto? Chi è che ha preso possesso? Chi è l’abitatore che è venuto veramente ad organizzare tutta questa massa di gente, a dare tanti ordini, ad esprimersi in maniera così precisa?
Allora un giorno o l’altro dovremmo tentare di conoscere chi sono questi altri due. Forse dovevamo chiamare questi altri due a fare questa chiacchierata…

D: sicuramente il mio abitatore è quello che non sono mai stato, quello che vorrei essere, cioè la gente. Io sono un voyeur, dentro sono veramente quasi niente, senza fare l’apocalisse del mio poco, divento qualcuno quando vedo qualcuno.
Se io fossi solo in una stanza sarei un vaso, un mobile, quindi quando penso alla gente, è un’energia che mi arriva immaginando tutto quello che c’è fuori, così probabilmente le mie canzoni. Non sapendo suonare, non conoscendo la musica, se immagino cosa stanno discutendo in Argentina adesso, con uno che si sta accendendo una sigaretta, mi viene veramente una tale paranoia che mi butto sul piano e faccio un tango e sogno lo scalpiccio delle scarpe quando gira e più è lontano più mi viene questa grinta di conoscere.

F: sappiamo pochissimo in generale e su noi stessi, nell’espressione che siamo chiamati a realizzare, tu la musica io le immagini, sappiamo molto poco, quindi teorie sui nostri sistemi non sono ipotizzabili… ma insomma dobbiamo riconoscere che siamo molto fortunati, continuiamo a giocare alla nostra età, io un po’ meno di te, ma comunque continuiamo a fare quello che ci piaceva da bambini, giocare, è praticamente non far niente aspettando qualcosa… me lo fai risentire il pezzettino del Rex di Amarcord?

(Dalla torna a sedersi al piano…)

F: poi tu dici che non sai suonare… io per suonare così darei gli ultimi tre capelli che mi sono rimasti.

D: andai anch’io a lezione una volta, mi dissero non puoi suonare con quelle dita, con le mani da maiale… e in effetti c’è qualcosa di suino nel mio fisico. Al pianoforte devi fare degli sbalanzi micidiali per prendere le note, però il cuore ce lo metto.


domenica 22 settembre 2013

Tonino Zurlo e il Canto degli ulivi


La vita del cantastorie pugliese Tonino Zurlo è talmente innestata con la cultura mediterranea dell’ulivo che mi fa venire in mente il poeta indiano Rabindranath Tagore: “gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto”.
Basta guardare la copertina del suo ultimo cd, “L’ulivo che canta”, per entrare nella bottega di musica e scultura dell’artista di Ostuni e sentire questa tensione all’infinito e all’indefinito.
“Gli alberi sono sculture”, dice Tonino. Assumono forme e sembianze antropomorfe, caricaturali, proprio come in cielo le nuvole.
A 67 anni, Zurlo è finalista al Premio Tenco nella categoria “Album in dialetto”, finalmente un riconoscimento per un altro grande “tramite” della cultura e dell’animo popolare del nostro Paese. Ci incontriamo ogni estate, a Mola di Bari, in occasione del tributo a Enzo Del Re. L’ultima volta mi ha detto che la musica non gli piace più, che non vuole più fare niente. Alla fine della conversazione ho evitato di chiedergli se avesse cambiato idea.

Cosa rappresenta l’ulivo per te e per la terra in cui sei nato?

E’ l’albero della drammaticità che tutto contiene. E’ la pianta della luce, prima dell’elettricità c’era l’olio. E’ una scultura che esprime tutta la cultura mediterranea. L’ulivo mi racconta e mi ha fatto capire che l’arte non implica alcun tipo di sforzo. L’arte non sei tu, ma il tuo spirito guida. L’artista è solo un tramite.

Questo “secolare cantastorie mediterraneo” sembra sfinito, con la lingua di fuori, cosa racconta?

Non ho mai un’idea di partenza, comincio a lisciare il legno finché non diventa come marmo. Le mie sculture sono apotropaiche, la lingua serve a scacciare lo spirito maligno che è dentro di noi.

Cantautore dagli anni ‘70, quando sei diventato scultore?

Per caso, quattro anni fa. Prima facevo il falegname, poi ho perso la falange di un dito e per paura di non poter più suonare la chitarra, mi sono limitato a piccoli lavori di restauro, cornici e antiquariato.


E la prima scultura?

Avevo comprato dei pezzi di legno per il camino. Mentre li sceglievo, mi sono soffermato a guardarne un paio, molto particolari. Era come se volessero comunicarmi qualcosa. Così ho provato a modellarli e sono nate le prime forme.

Le tue opere hanno la stessa funzione delle maschere agli angoli di antichi palazzi, sotto i balconi in pietra. Scolpire queste figure grottesche significava scacciarle dalle abitazioni ed esorcizzarne la paura. C’è qualche attinenza tra le due cose?

Non ho preso ispirazione da queste decorazioni, ma molti mi hanno detto che il mio lavoro probabilmente discende dalla cultura greca. Sono venuti dalla Svizzera, due ragazzi, per girare un documentario proprio su questo.

Nel brano “Senza bagagli” torni a parlare di anime, però quelle buone.

Bisogna esorcizzare la paura della morte per migliorare la qualità della vita. “Se nella vita sei stato un fiore, sopra la terra lasci il tuo buon odore”. La presa di coscienza delle tue azioni diventerà  un profumo per una società diversa. Questo rende la tua anima più leggera e in grado di farla volare, senza pesi terreni. Come il fiore, anche le foglie, terminato il loro ciclo, si distaccano dagli alberi e nella terra diventano humus, nuova energia. Con umiltà, ognuno di noi lascerà traccia di sé.

Dopo “Jata Viende” del 2003 pubblicato con il Circolo Gianni Bosio e “”Nuzzole e pparolu” del 2007 per l’etichetta Anima Mundi, ora “L’ulivo che canta”. Tre dischi in dieci anni e prima? 
                                             
Ho sempre cantato perché avevo bisogno di dire delle cose, di prendere posizione. A venticinque anni me ne sono andato in autostop con i “Cristiani per il socialismo” nei campi-scuola e nei campi di lavoro. Senza neanche saper accordare la chitarra, inventavo delle canzoni nel tentativo di mettere a fuoco una certa società che andava avanti.

“Lu frate in polizia” è una canzone che nasce in quegli anni… possiamo definirla “canto di emigrazione”?

Quella di chi non trovava posto in Germania e si arruolava. Come è successo a mio fratello, emigrato al nord per entrare in polizia. Per la famiglia, un figlio poliziotto significava avere una sicurezza economica. L’importante era che fosse sistemato a vita, non c’era un’elaborazione ulteriore. Per me, invece, mio fratello se lo stavano comprando, per metterci gli uni contro gli altri. “La colpa è di li patrune che s’ccattan li cchjù bell e li cchjù fort de li guagliun”: il potere economico ha sempre la capacità di scatenare la guerra fra poveri. Quando c’erano gli scioperi o le manifestazioni, li vedevi gli uni contro gli altri, meridionali contro meridionali, chi era andato per lavorare e chi era andato per lavorare, ma in maniera diversa. Avrei voluto dire a mio fratello, “lascia la polizia, vieni dalla mia parte”, per impegnarsi a diffondere una cultura orientata alla presa di coscienza delle proprie azioni, è questa la cosa importante.

Lo spettro del padrone riappare nella canzone “La fattora”, la donna del caporale o “Soprastante”, come lo chiamava Matteo Salvatore. 

La fattora era la “soprastante” che sorvegliava i lavoratori e li obbligava a ritmi forsennati. Quando andavo a raccogliere le olive, lei ci diceva “ioccia! ioccia!”, “sbrigatevi! Riempite in fretta il vostro paniere!” . Era povera come noi, ma era la prescelta. Una che si vendeva al padrone non poteva di certo fare gli affari della povera gente.

Quanti anni avevi?

10, 12 anni.

E per quanto tempo hai fatto questo lavoro?

Due anni.

E a scuola non ci andavi?

Ho frequentato fino alla quarta elementare, poi ho litigato con la maestra e non ci sono più tornato. La quinta l’ho recuperata anni dopo, con le scuole serali.

Non potevi cambiare maestra?

Ci ho provato, ma non me l’hanno permesso. E’ una vicenda molto controversa, che ho vissuto come una violenza e mi ha creato degli scombussolamenti psichici enormi. Mi teneva al suo servizio, mi mandava a fare la spesa durante l’orario scolastico, l’estate dovevo andare tutti i giorni a casa sua. Mi avrebbe fatto studiare, diceva. Mi teneva così, senza un vero motivo. Mi faceva trovare sempre un piatto di pasta, ma io non la sopportavo. Alla fine ho detto basta e ho dovuto chiudere anche con la scuola. Per anni ho avuto il rifiuto della scrittura, la vivevo come una tortura, ancora oggi ho difficoltà persino a leggere. Poi, per fortuna, Dio mi ha compensato in modo diverso, con la creatività che mi ha dato.

C’è stato, invece, nella tua vita, un maestro di musica, come il “portatore cieco di serenate” incontrato da Matteo Salvatore?

Mi ricordo le feste di carnevale, in campagna si cantava, ma non ho mai avuto la fortuna di incontrare un maestro, un personaggio forte che raccontasse la realtà com’era. Sentivo solo cose folkloristiche.

Hai mai conosciuto Matteo?

Poco, ma da lui ho ripreso la formula del banditore che chiama a raccolta “sentite… sentite!” per raccontare “Lu prefisce”. E’ la storia di come è andata alla malora un’altra grossa economia del nostro Paese, quella dei fichi.

Che cos’è lu prefisce, il profico?

Per avere delle buone annate, l’albero di fico si doveva “improficiare”. Per questo mio padre andava a comprare i profichi, un’altra varietà di fico che non arrivava mai a maturazione, ma produceva dei moscerini, i “tampagnul”. Bisognava lasciare un po’ di questi profichi ai piedi della pianta o tra i rami, affinché i moscerini deponessero le loro uova nel fico “femmina”, che dopo questo trattamento naturale, diventava il frutto dolcissimo e saporito che tutti conosciamo.
Era una fiorente economia, c’erano stabilimenti che impacchettavano i nostri fichi per l’esportazione, quelli di scarto diventavano spirito, perché pieni di zucchero. Ora si fanno le “fiche maritate”, quelle con le mandorle dentro, o i fichi secchi, ma il grosso marcisce a bordo strada e nessuno se ne cura.

Parliamo ancora di sprechi con la canzone sull’acqua.

A Ostuni, quando non pioveva, si facevano le suppliche a Sant’Oronzo. La canzone dice “L’acqua che non cade, in cielo resta, e quando cade a terra rinfresca la terra, ma noi non abbiamo mai pagato il padreterno”, invece, su questo pianeta c’è chi si sostituisce a nostro Signore. Senza contare che vendere una bottiglia d’acqua a un euro è rubare. Noi la compriamo, la strapaghiamo e nessuno si ribella più.

La tua voce contadina si trova a suo agio tra arrangiamenti blues, gospel, arabeggianti di Mauro Semeraro. “Fore a dde me” è addirittura un blues rurale swingante, quasi funky. Di cosa parla?  

E’ un blues botta e risposta sulla dipendenza che abbiamo da beni tecnologici e di consumo. Doveva somigliare a una preghiera, il Rosario che in campagna mia madre mi faceva dire tutte le sere.

Che ricordo hai di un altro tuo indimenticabile conterraneo, Enzo Del Re?

Negli anni ’70, con Enzo, ci siamo cercati spesso, soprattutto se c’era da intervenire da qualche parte. Era molto chiuso, aveva le sue fisime, vedeva le cose a modo suo, aveva la sua visione di classe e non si metteva mai in discussione. Si dice che quelli di Mola siano “captuost”, Enzo lo era, una vera testa dura, se penso che non si è fatto nemmeno curare…
Scelti per casualità divina o alchimia, Enzo e Matteo sono stati dei tramiti che hanno lasciato una scia di cose belle. Qui, ogni paese ha il suo artista, chi è vivo deve andare a cercare queste testimonianze, io credo molto nelle piccole cose, mai nelle grandi.



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martedì 17 settembre 2013

Capossela e la Banda della Posta
Ca...litri di vino e musica nella valigia dello sposo


Ho visto il concerto della Banda della Posta di Vinicio Capossela due volte: il 25 aprile e l’8 settembre. Centrare casualmente una doppietta così solenne merita una riflessione. La liberazione e la resa. Un po’ come accade nel matrimonio: quando comincia, è come scendere a patti con l’amore, quando finisce, è quasi sempre una liberazione. Ho parlato di matrimoni, ma avrei dovuto scrivere “sposalizi”, termine che implica l’aspetto più carnale di tutta la faccenda, con il cibo, il ballo e la sfrenata ebbrezza dionisica del giorno di festa.
Tanta la carne al fuoco. Si potrebbe cominciare dal caglio che mio nonno andava a comprare dal macellaio di Calitri per fare il caciocavallo podolico. Potrei partire dalla mitica montagna di Rapone, dove la baracca rosa di Lorenzo Pinto è la versione vintage della casa di Peppa Pig.
Potrei descrivere i matrimoni da Mast’Antonio, dove si arrivava dopo il lauto pasto per buttarsi nella mischia, bere e ballare, abbracciare sposi e compari mai visti prima e mai più riconosciuti, ma sono tanti gli elementi che compongono il dna dell’ultima creatura di Vinicio Capossela e non posso sviscerarli tutti. 
Allora parto dal nome: Banda della Posta. La Passione e la pensione, la processione religiosa del Santo patrono e quella laica di chi lavora a padrone. Il nome suggerisce anche uno scenario assolato e western di un manipolo di nonnetti “appostati” come banditi, davanti all’Ufficio postale, in attesa del meritato bottino. 
Il repertorio potrebbe non avere confini e sicuramente è una porta che si apre a fisarmonica sul passato, sui “ballabili” dello stesso Vinicio e sul variegato mondo sonoro dei cosiddetti “canti d’emigrazione”. 
Come è strombazzato sul cd della Banda, il concerto inizia con “Primo ballo” dopo un’overture che lancia la sfida: “España cañì”, paso doble degli anni Venti, simbolo della lotta tra il toro e il suo torero, un passo a due, come lo sposalizio. Il brano funziona da sipario e ci dà il benvenuto nell’arena. 

C’è un primo ballo, ma non l’ultimo… perché lo sposalizio è solo uno spossante inizio, e la musica, il cibo, la durata della festa sono la metafora di una promessa di abbondanza per un uomo e una donna che vanno incontro alla vita “finché morti non li separi”. C’è “la serenata a ingiuria” di Calitri, quella che ancora oggi si canta sotto il balcone della sposa, per amore, ma anche per dispetto... 
Dalla Banda al banditore. Capossela ripropone tre “classici” di Matteo Salvatore, “I proverbi paesani”, quella che tutti chiamano “Ratatatumpa” (in una sola parola tutta la percussione di una marching-band), “I maccheroni” (chi muore muore, chi campa campa e nu piattu di maccarruni cu la carna…) e “L’inno della Repubblica” scritta, a quanto pare, dal padre del cantautore del Gargano mentre era detenuto nel carcere di Lucera col sindacalista Giuseppe Di Vittorio. 
Sono nozze d’oro, invece, per papà Vito Capossela e signora che seguono dal backstage il tour della Banda. A Vito, “collezionista di foto davanti a macchine non sue”, partito per la Germania nel ‘63, Vinicio aveva già dedicato, nel 2003, “Si è spento il sole” di Adriano Celentano, inserendola nel cd antologico “L’indispensabile”. Nella scaletta della Banda c’è spazio anche per altri 45 giri della “fonovaligia dell’emigrante”, quelli che Capossela chiama i grandi interpreti dell’emigrazione ferroviaria, Salvatore Adamo, Rocco Granata e i Barritas di Benito Urgu. Tra i papabili è previsto persino un brano di Nicola Di Bari, altro grande personaggio che in Italia meriterebbe maggiore attenzione. Questa volta però la canzone del cantante di Zapponeta cede il posto ad un omaggio al Festival Frammenti di Frascati e al territorio ospitante: “’Na gita a li castelli” nota anche come “Nannì”.

Le copertine di questi 45 giri sono un vero spasso. L’unità grafica che racchiudeva il ballo, la nostalgia per il paese lontano, la musica di tradizione, il giovane dal nome tosto, a volte esotico, era rappresentata da una fisarmonica, strumento-simbolo dell’emigrazione. Anche perché facilmente trasportabile nei bauli o nelle valigie chiuse con lo spago. Uno di questi che andavano per la maggiore si chiamava Vinicio e non è un caso che rientri in questo discorso. Una volta, Capossela ha raccontato che papà Vito possedeva una collezione di dischi di questo misterioso e fantomatico personaggio, specializzato in tango. Da Vito a Vinicio il passo è breve e il battesimo, anche musicale, è d’obbligo. Così l’identità di Capossela si delinea attorno a uno pseudonimo, perché dietro al Vinicio fisarmonicista del tango che spopolava nelle balere d’Oltralpe, si celava, in realtà, Eduardo Alfieri, autore, arrangiatore, direttore d’orchestra di tanta canzone napoletana degli anni ’50-‘60, nonché pianista di Sergio Bruni. 

Tra un fox-trot, una polka, una tarantella, il tango e una quadriglia comandata, arriva “Occhi neri”, “un vero pezzo “mariachi”, poi una ranchera che sembra annunciare nella sua parte finale strumentale “Marina” di Granata e invece arriva “Manuela”, il lato A di quel vinile da esportazione. La canzone, già popolare nella versione di Luciano Tajoli, diventa un cavallo di battaglia del calabrese di Figline Vegliaturo, in provincia di Cosenza, Rocco Granata, minatore figlio di minatore (quando si dice che il destino è già scritto nel nome), emigrato con la famiglia in Belgio nel ’48. 
Anche qui, il pezzo finisce a sorpresa, giocando con le note greche de “I ragazzi del Pireo” di Manos Hatjidakis.
Giocare, voce del verbo “to play music”, con chitarra, scopa, canto, calici, stelle filanti e pistolettate, Vinicio Capossela, con Franchino ‘u parrucchiere alla chitarra, Peppino detto Totta Creta alla fisarmonica, il cowboy del ritmo, Antonio Daniele, alla batteria… solo per citarne alcuni.

A Frascati mancavano all’appello un mandolinista e il Primo violino, Peppino detto Matalena che, all’occorrenza, siede all’organo per le grandi cerimonie religiose. Infatti, l’8 settembre a Calitri e in buona parte del Meridione d’Italia si festeggia la Madonna Addolorata e in ogni festa religiosa c’è sempre un cantante “pop”. Quella sera Matalena è rimasto a Calitri mentre, parallelamente al suo organo, si esibiva in piazza Franco Simone. Se ho capito bene, ho immaginato Peppino come l’unico baluardo della Banda e della Posta che non poteva lasciare il suo avamposto d’onore.

Rispetto al debutto del 25 aprile, sono aumentati i brani di Vinicio affidati alla rumorosa compagnia, come a volersi “sponzare” fino in fondo, che vuol dire, come ha spiegato lo stesso Capossela nella premessa (nonché promessa) al Calitri Sponz Festival di fine agosto, calarsi nel ballo con anima e corpo e quindi “inzupparsi” di sudore. Un po’ come il "pane cuotto" o la frisella nel pomodoro.
“Che cos’è l’amor”, “Con una rosa”, “Pena del Alma”, “L’uomo vivo”, “Il ballo di San Vito” e altre, ma soprattutto “Ovunque proteggi”, che l’autore stesso ha chiamato “canzone abbracciabile per eccellenza”. 

Mai definizione potrebbe essere più appropriata di “chef d’orchestra” per Vinicio Capossela che incita il pubblico al ballo, se non altro per digerire le cannazze di maccheroni, piatto forte del pranzo nuziale. 


Il richiamo delle origini, la forza degli archetipi ci fanno sentire parte di una stessa comunità. È questo lo spirito che pervade il concerto, un rito corale e liberatorio, specie quando Capossela, sponzato al punto giusto, si lancia in un ballo vorticoso con sua madre, trascinandola dal retropalco all’altare della musica. E’ a quel punto che mi viene in mente uno strano accostamento, Vinicio Capossela-Bruce Springsteen. Qualche anno fa, ho assistito ad un concerto di Springsteen (e il video è rintracciabile su youtube) in cui il Boss, come un emigrante qualunque, abbraccia la madre sul palco e si mette a ballare con lei. Allora penso agli Stati Uniti raccontati da Springsteen, quel lavoro sull’America più profonda, alla ricerca della vera anima popolare del Paese, culminato nel tributo a Pete Seeger, un cd e un tour in cui il cantautore del New Jersey è accompagnato da una band da saloon, il corrispettivo country della Banda della Posta. Lì il banjo, qui il mandolino. Alla vigilia di quell'impresa, Springsteen disse: “anche se non conosci il disco, al concerto puoi sentirti come a casa”. I Pete Seeger, i Woody Guthrie italiani sono Matteo Salvatore, Enzo Del Re, i Tottacreta, i Matalena, quelli che Capossela ha tanto amato, ha un po’ sposato e riportato a casa. Tutto torna, a casa, prima o poi. Come l’emigrante.

Bruce Springsteen & The Seeger Session Band
Vinicio Capossela e la Banda della Posta

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martedì 27 agosto 2013

VIVA DEL RE!
Omaggio a Enzo Del Re

COMUNICATO STAMPA




ARENA CASTELLO - MOLA DI BARI

3 settembre 2013 ore 21

DIREZIONE ARTISTICA
Vinicio Capossela

L’Omaggio a Enzo Del Re, ideato e diretto nel 2011 da Annella Andriani e Timisoara Pinto, giunge alla sua terza edizione e si avvale della direzione artistica di Vinicio Capossela, grande estimatore e interprete del cantastorie di Mola di Bari. 
Con Capossela, la serata mantiene intatto e rilancia il suo spirito “carbonaro”, a partire dal titolo scelto dal direttore artistico, “Viva DEL RE!”, in un ideale gemellaggio con quel “Viva VERDI!” di risorgimentale memoria, che segnò una svolta significativa nella musica e nella coscienza popolare italiana.
Quella di Enzo Del Re è una vicenda umana e artistica da riscoprire, per le sue canzoni e per il modo di accompagnarsi, suonando semplicemente una sedia; per l’originalità e l’autenticità del personaggio, caso unico di “musicista-corpofonista”, capace di alternare lunghi recitativi monodici, ma sempre con un accompagnamento ritmico molto sostenuto, a melodie vere e proprie. Un irriducibile autodidatta rivoluzionario che si definiva “cantaprotestautore”.
Con la forza della sua voce e delle sue canzoni, di straordinaria ironia e attualità (tanto che la sua riscoperta è dovuta in gran parte ai giovani), sapeva trasmettere un grande desiderio di giustizia e libertà.
Per non dimenticare la storia di questo grande artista, il 3 settembre 2013 nell’anfiteatro sul lungomare di Mola di Bari davanti al castello, si terrà VIVA DEL RE!, un concerto-tributo alle sue canzoni con la partecipazione di Acqua su Marte, Bunna e Cato (Africa Unite), Brunori Sas, Enzo Gragnaniello, Antonio Infantino & i Tarantolati di Tricarico, Leontino, Daniele Sepe e Moni Ovadia con un contributo in video.
Le scorse edizioni dell’omaggio a Enzo Del Re hanno visto alternarsi sul palco artisti del calibro dello stesso Vinicio Capossela, di Dario Fo, Franca Rame, Faraualla, Tetes de Bois, Teresa De Sio, Radicanto, Alessio Lega, Piero Nissim, Vito Quaranta, Sergio Staino, Terrae, Uaragniaun, Tonino Zurlo, Rudi Assuntino, Gianni Cellamare, Fabularasa, Uaragniaun, Il Soffio dell’Otre ed altri

Promotori dell’evento, la Regione Puglia in collaborazione con Puglia Sounds - PO FESR PUGLIA 2007/2013 ASSE IV - INVESTIAMO NEL VOSTRO FUTURO, la città di Mola di Bari e la libreria Culture Club Cafè di Domenico Sparno    

sabato 24 agosto 2013

Call for freedom

La musica di Eser Taşkıran nella Turchia di Erdoğan e di piazza Taksim


Eser Taşkıran


Si scrive Erdoğan, si legge Erdouan. Il Primo Ministro turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha condannato la brutale repressione in Egitto, dicendo: “coloro che restano in silenzio davanti a questo massacro sono colpevoli tanto quanto chi lo ha compiuto. Un gravissimo atto contro un popolo che non faceva altro che manifestare pacificamente”. L’Obama dei suoi stati disuniti che, in queste ore tumultuose di lotta egiziana, offre lezioni di pacifismo e legalità, non può di certo sbandierarci il suo curriculum.
Appena tre mesi fa ha provocato l’esecuzione di cinque giovani che, in piazza Taksim a Instanbul, “non facevano altro che manifestare pacificamente”, ed ha causato il ferimento di altre mille persone. Di queste, dodici sono rimaste cieche, colpite dalle bombe lacrimogene sparate all’altezza dello sguardo. Me l’ha raccontato un musicista che a questa vicenda ha dedicato anche una canzone, “Barışa Çağrı ” (call for freedom o chiamata per la libertà).

Si chiama Eser Taşkıran (se si parla di curriculum, nel suo si contano quarantaquattro riconoscimenti artistici in ambito internazionale), ha quarant’anni, studia musica da quando ne aveva quattro, nel ‘95 ha fondato la rockband Egoist, è un produttore musicale ed è un giovane di Instanbul.

Con Eser parliamo dell’amore per l’Italia, per quel ruolo di mediazione culturale che la Penisola italiana dovrebbe avere perché connaturato alla sua storia e alla sua geografia, per quello che ha trasmesso ad Eser, studente del Liceo italiano di Instanbul che dice “Quando c’era un ponte da costruire, arrivavano gli italiani. Sono loro i migliori costruttori di ponti del mondo”. Non sarà perché in Italia abbiamo il Pontefice maximus? Ma questo ha a che vedere solo con una mia certa fissazione per l’etimologia.


Egoist

L’Italia per Eser è soprattutto musica. Perché?
“Se ho finito il liceo, lo devo ai miei insegnati italiani. In una scuola statale non ce l’avrei mai fatta, pensavo solo alla musica. In quella materia ero bravo, la mia professoressa, Elisabetta Di Stefano, ha trascorso una vita qui da noi ed era il correpetitore dell’Opera di Instanbul. Per i primi due anni ho fatto pratica intensiva di italiano, poi i miei compagni, figli degli ingegneri italiani arrivati qui all’epoca del secondo ponte sul Bosforo, hanno imparato la nostra lingua e di italiano ho conservato le amicizie e le canzoni…

Quali?
Qualche anno fa ho realizzato un progetto, le napoletane alla turca: brani interpretati da un trio di tenori e riarrangiati con gli strumenti della musica ottomana, come il darbuka, il bendir, la chitarra kanoun, il clarinetto sol, con l’accordatura pensata per le scale della musica orientale, oltre che con il mio pianoforte e l’Instanbul strings group, un ensemble di violini stile arabo.

Verso la metà degli anni Novanta, hai fondato un gruppo, gli Egoist. Canzoni Turche in chiave rock?
Il nostro ispiratore è Barış Manço, l’artista più amato in Turchia, purtroppo scomparso nel ’99. Un luminare, aveva frequentato il Liceo francese di Instanbul, e poi si era traferito in Belgio per studiare architettura. Ha ideato e realizzato programmi televisivi e dal ‘70 ha cominciato a produrre album di genere rock con temi orientali. Conosceva cinque lingue e, attraverso un sapiente uso della tv, ha dato un contributo molto forte alla crescita culturale del nostro Paese. E’ stata una personalità molto importante per tutta la Turchia e noi Egoist, con mia sorella Meltem alla voce solista, continueremo a suonare e a portare in giro la sua musica, che mescola rock alle radici e alla tradizione.

Allora Eser, a tre mesi dai fatti di piazza Taksim, il vostro premier Erdoğan sta cercando il modo di riabilitarsi?
Non ai nostri occhi. Ancora oggi piazza Taksim è presidiata dai toma, le macchine che spruzzano acqua ad alta pressione, e se tre persone passeggiano insieme nel parco, i poliziotti in tenuta antisommossa sono autorizzati a picchiarle. Erdoğan non riesce a sopportare le proteste della gente, chi si ribella è solo un terrorista. La storia è piena di errori, ma bisogna trovare il modo di chiedere scusa, altrimenti il popolo smette di credere nello Stato.

Ed Erdoğan non l’ha fatto…
No e dirò di più, con tutto quello che stava accadendo qui, decide di partire per fare un giro nei Paesi Arabi. Un tour di cinque giorni che non si poteva rimandare perché fissato da tempo. Così ci hanno detto. Nei suoi incontri si è messo a raccontare che un gruppo di pericolosi estremisti aveva portato bottiglie di alcolici nelle Moschee. Questo naturalmente ha dato ulteriore forza alla parte radicale della Turchia, un buon Primo Ministro dovrebbe avvicinare la sua gente, non metterla in guerra. Poteva dire che non aveva capito il nostro grande amore per la natura, ma no, non l’ha fatto.

Erdoğan è al governo da dodici anni, come fa ad avere un seguito così consistente?
Ha realizzato grandi cose, certamente… Non poteva diventare un dittatore senza aver fatto nulla. Ma se i numeri dicono che l’economia si è sviluppata, la realtà è ben diversa. Compriamo e vendiamo, ricompriamo e rivendiamo, ma cosa produciamo? Erdoğan è stato anche sindaco di Instanbul e ha costruito strade e opere pubbliche, ma essere lo Stato è un’altra cosa, devi aprire le braccia a tutto il Paese, non solo a coloro ai quali risulti simpatico. Sono sicuro che qualsiasi altro ministro della Comunità Europea al suo posto, dopo tante contestazioni e proteste, avrebbe detto mi dispiace devo andare, e invece sta ancora là, come se niente fosse…

Non ne sono così sicura… ma ritorniamo ai fatti di piazza Taksim e tentiamo di fare chiarezza sul bilancio delle vittime.
La protesta è partita con una ventina di ragazzi seduti a gambe incrociate nel nostro meraviglioso parco Gezi. Semplicemente c’erano delle enormi macchine che lo stavano radendo al suolo. Invece di sradicare gli alberi per ripiantarli altrove, cosa che avevano annunciato di fare, gli addetti alle operazioni stavano recidendo le piante con un taglio netto. I ragazzi sono rimasti lì a guardare, senza toccare nulla, con alcune tende per la notte. Bersaglio facile per i poliziotti che dapprima hanno pensato bene di appiccare il fuoco per bruciare il piccolo accampamento, poi hanno cominciato a picchiare i ragazzi che si erano lì riuniti. Credevamo di essere soli, ma la protesta è dilagata anche in altre città della Turchia, fino a coinvolgere diecimila persone.

In questi casi quello che ci fa sperare ancora è vedere come un movimento nato dal basso possa diventare una forza in grado di strutturarsi…
Infatti, un grande aiuto è arrivato dai Çarşı, i tifosi della nostra squadra di calcio, il Beşiktaş, gente abituata a stare con i poliziotti… Erano in ventimila. Ti racconto un episodio non secondario: il secondo giorno di violenza, questi Çarşı, che vuol dire “mercato”, sapendo che i poliziotti avrebbero indossato le maschere antigas, le hanno cosparse di colorante nero, limitando di fatto la visibilità di questi uomini armati fino ai denti. Purtroppo questo non ha impedito che uno di loro puntasse un’arma in faccia ad un ragazzo inerme. Si chiamava Ali Ismail Korkmaz ed era uno studente. Le altre persone che abbiamo perso per le percosse subite sono Ethem Sarısülük, Abdullah Cömert, Medeni Yıldım, Mehmet Ayvalıtaş.

Come a Genova…
Sì e voi cosa avete fatto al poliziotto?

Rispondi prima tu…
Qui il poliziotto lo hanno nascosto e non lo arresteranno mai. Capisci la gravità? Il poliziotto ha mirato alla testa, aveva tutta la volontà di uccidere quel ragazzo. Un altro è morto per le bastonate e un Ministro dello Stato ha detto che questo giovane era già molto malato e che non si poteva fare niente per curarlo. I dottori, tanti studenti in medicina, sono andati a soccorrere i feriti e sai cosa ha fatto lo Stato? Glielo ha impedito. Nelle macchine lancia-acqua c’era qualcosa di chimico, non era solo acqua, la nostra pelle era piena di scottature. Nei primi 6 giorni di scontri, i poliziotti hanno buttato bombe di gas pari a quelle che tutta la Comunità Europea utilizza in un anno. Erdoğan è andato alla scuola dei poliziotti turchi a stringergli la mano. “Avete scritto una leggenda”, gli ha detto. Certo, 5 morti, 1000 feriti, 12 occhi persi… è davvero una leggenda… Come possiamo credere a uno Stato del genere? Il problema grande è questo.

Nessuno ha fatto luce su questi morti?
Ma se anche gli avvocati sono stati arrestati? Gli avvocati che provavano a proteggere i giovani portati in caserma in modo illegale. La legge qui non esiste perché lo Stato può trasformarla come vuole. Sai un’altra novità in proposito? Chiunque, in ogni partita di calcio o cerimonia sportiva, verrà inquadrato da apposite telecamere a inneggiare contro lo Stato e il Primo ministro, verrà espulso e non potrà più mettere piede negli Stadi. Un’ altra nuova legge che mi ha fatto stare molto male dice che c’è un unico posto per tutti i musulmani e questo posto è la Moschea , ma noi aleviti abbiamo la nostra casa e un altro modo di pregare, si chiama Cem Evi, che vuol dire “casa di Cem”. E’ come se lo stato italiano dicesse che esiste solo la Chiesa cattolica e quella per gli ortodossi da oggi non esiste più. Lo stato deve essere alla stessa distanza da qualsiasi credenza… invece si sta formando un solo modo per pregare e per vivere.

Quando è iniziato questo processo di radicalizzazione?
Si va al voto l’anno prossimo, in Anatolia la radice dei radicali è ben salda e Erdogan è visto come un nuovo profeta. La religione ha questa forza, ecco perché il laicismo è molto importante, specie in un paese musulmano.
La Repubblica Turca è una repubblica molto giovane. Grazie al nostro grande capo Atatürk che, dopo la prima guerra mondiale, ha spazzato via le leggi religiose e ci ha fatto diventare una repubblica laica, oggi forse siamo il solo paese laico democratico fra i paesi musulmani e questo ci piace tantissimo, perché essere laico ci dà forza come uomini e come Paese. Il nostro Erdoğan , però, dopo il secondo mandato, ha cominciato a diventare un leader religioso, a dire che dovevamo fare almeno tre figli, ha messo tasse su alcolici e sigarette. L’aggettivo laico ora lo stiamo per perdere.

Eppure Erdoğan ha avuto un passato più trasgressivo, è finito persino in prigione in gioventù.

Era stato arrestato perché aveva letto una poesia in cui c’era una frase ambigua: “le moschee sono i luoghi in cui diventiamo di più”. Le moschee sono i posti in cui si va a pregare, non a fare riunioni politiche o d’altro genere. Pena prevista per l’oltraggio “in versi” alla moschea è la prigione. La poesia é di Adil Avaz.

Non c’è modo di arrivare a un compromesso storico con questi radicali?
Anche noi abbiamo fatto i nostri errori. Abbiamo ingaggiato una lotta per affrancare le donne dal copricato nelle nostre Università. Non lo sopportiamo, è per noi il nemico che vuole portare la nostra repubblica laica verso un paese musulmano. I radicali hanno usato questo punto contro di noi, dicendo: “apriremo le Università alle ragazze che credono”, capisci, si tratta di una leva importantissima…  Insomma non dovevamo odiare tanto questa “copertina”…  alla fine è solamente un vestito che ha dato una grande forza ai radicali. In quel periodo i nostri oppositori erano molto nervosi perché le loro figlie non potevano andare all’università e invece oggi ci sono bambine con le “copertine” anche alle elementari… Ora i radicali dicono che noi laici abbiamo protestato con tutta la nostra forza per tre alberi, ma quando c’era il problema del copricapo non abbiamo camminato al loro fianco.

Mi spieghi com’è fatto il copricato o, come dici tu, “copertina”?
Deve coprire la testa totalmente in modo che non si veda neanche un capello. La donna può indossare anche una parrucca, purché non si vedano i suoi veri capelli. Quello tradizionale turco dell’Anatolia, invece, non è così rigido, se si vede qualche capello non significa nulla. Questo però sai cosa comporta? Se ho un malore di domenica e di turno in ospedale c’è soltanto un medico donna, questo dottore con il copricapo non può neanche guardarmi. Non c’è giuramento di Ippocrate che tenga, può disinteressarsi totalmente, perché sono un uomo…

Salutiamoci con una nota di costume: i turisti sono venuti lo stesso in Turchia questa estate?
Un amico, un altro diplomato al mio Liceo, è il direttore di Prontotour, ditta turistica turco-italiana. Secondo le sue stime, il calo è stato del 40%.


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il video della canzone "Barışa Çağrı" di Eser Taşkıran dedicata a Piazza Taksim